Emile Benveniste, nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee (Einaudi, 1976), quando ricostruisce l’universo concettuale delle culture indoeuropee riguardante l’ospitalità, interpreta l’hospes come colui che, in un patto di reciprocità, riconosce nello straniero un altro sé stesso e per questo lo accoglie. L’idea del patto di reciprocità è centrale e la ritroviamo anche nel mondo omerico dove è in relazione con il concetto di philos, di amico.
Secondo Benveniste “il verbo philein esprime la condotta obbligatoria di colui che accoglie presso di sé lo xenos e lo tratta secondo il costume ancestrale” (p. 262). C’è un punto che vale la pena sottolineare: philein riguarda un rapporto che potremmo dire familiare, infatti parenti, alleati, domestici sono chiamati philoi. Ne deriva che il concetto di philia implica quel legame che trasforma l’altro da nemico in un membro della “famiglia”. Un legame che rappresenta lo straniero come qualcuno che pur essendo materialmente e simbolicamente diverso, può essere accolto.
Questa relazione è fondamentale nella realtà della società omerica e per capirla occorre considerare qual è la posizione dello straniero che si trova in un paese in cui è privo di ogni diritto, di ogni protezione, di ogni mezzo di sussistenza e riceve ospitalità presso colui con il quale si stabilisce un legame di philotes; rapporto che diventa realtà nell’anello rotto in due di cui ognuno conserva la metà. Il patto concluso trasforma i due estranei in philoi, impegnati a quella reciprocità che costituisce l’ospitalità (p. 262).
Questo patto, che sottrae lo straniero a un’alterità non ricomponibile e inevitabilmente conflittuale, si fonda sul fare transitare l’alterità entro i confini della familiarità dove può essere accettata e perfino compresa. In altri termini, nella società omerica l’amicizia costruisce una relazione fra estranei che non li fa più stranieri. L’alterità totale del nemico si risolve nel rapporto di amicizia, che costringe i contraenti a ridefinire reciprocamente le loro identità.
Il philos dunque è l’altro con il quale si ha un rapporto di appartenenza che non nega il soggetto, non lo annulla, anzi è proprio attraverso questa appartenenza che si definisce. Il philos è l’altro sé stesso e il suo essere altro è essenziale per stabilire il rapporto di philia: io non posso essere io senza l’amico. L’identità si costruisce attraverso questo rapporto di reciprocità e riconoscimento.
In effetti, come ricorda Paul Ricoeur, senza reciprocità, senza riconoscimento, l’alterità non sarebbe nient’altro che “l’espressione di una distanza indistinguibile da un’assenza”. È attraverso la reciprocità che il soggetto viene trasformato (Ricoeur, Il tripode etico della persona, in Persona e sviluppo. Un dibattito interdisciplinare, Dehoniane, 1991, p. 68). L’amicizia dunque aiuta a comprendere che la soggettività si definisce solo nella compagnia e nella relazione. Ricoeur, commentando Aristotele, nota che l’amicizia è intesa come una potenzialità che non trova attuazione senza l’incontro con l’altro, è l’esempio che la soggettività è relazionale, frutto di una dialettica fra io e altro.
Quanto scrive Ricoeur richiama alla mente la concezione dell’amicizia offerta da Pavel Florenskij, secondo cui l’altro è il diverso dentro un rapporto, è qualcuno che si ha di fronte ma che può essere incontrato. Un tema sviluppato in La Colonna e il Fondamento della Verità (San Paolo, 2010), che già nella struttura dialogica presuppone l’altro in una relazione d’amicizia. Qui Florenskij scrive che nella družba (l’amicizia) troviamo l’altro sé stesso, con un gioco di parole possibile solo nelle lingue slave dove drug, l’amico, è simile a drugoj, l’altro. Dunque l’amicizia è la contemplazione di sé stesso, attraverso l’amico, è la visione di sé con gli occhi dell’altro “L’Io, rispecchiandosi nell’amico, riconosce nel suo Io il proprio alter ego” (p. 448).
Florenskij propone dunque un’idea di amicizia nella quale è necessario un altro che permette la costruzione della soggettività e che proprio grazie al suo essere altro può dare forma a un io informe che solo nell’incontro con l’alterità dell’amico prende una forma. Si tratta di un cammino verso la conoscenza: “L’amicizia, quale nascita misteriosa del Tu, è il luogo nel quale ha inizio la rivelazione della Verità” (p. 404).
Bisogna dunque che ci sia l’amico per dare la possibilità al proprio io di (ri)conoscersi. L’amicizia diventa così la pietra di paragone di qualunque relazione umana, perché nel rapporto di amicizia l’io rompe la gabbia che lo imprigiona, esce da sé stesso e può ritrovarsi in quello dell’altro con uno svuotamento che lo ricostituisce completamente rinnovato.
“Un io solitario è un io perduto. Così l’io che non è solitario viene creato in una compagnia, da una compagnia che è amicizia” (Luigi Giussani, Si può vivere così, Rizzoli, 2007, p. 53).
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