L’incidente di Sevesorappresenta un punto di svolta nella storia sociale e ambientale sia italiana che europea, portando a un cambiamento radicale nel modo di produrre e nella relazione tra lavoro e salute.
Il 10 luglio 1976, il sistema di controllo del reattore chimico dell’ICMESA, una fabbrica chimica operante a Meda, al confine con Seveso, di proprietà della Hoffmann-La Roche, subì un’avaria. La fabbrica produceva triclorofenolo, una sostanza utilizzata nella produzione di diserbanti, fungicidi e battericidi. A causa del malfunzionamento la temperatura del reattore aumentò in modo incontrollabile, trasformando il triclorofenolo in TCDD, una diossina altamente tossica e classificata come cancerogena dall’International Agency for Research on Cancer. Una nube tossica fuoriuscì dalla fabbrica, colpendo il territorio circostante. Ancora non si conoscevano gli effetti complessivi sulla salute umana.
Quella del 1976 fu una “estate silenziosa”, calda e tormentata fin dal suo inizio, a causa del catastrofico terremoto che colpì il Friuli. Un intero paese, Seveso, e una parte del territorio della Brianza furono messi sotto i riflettori con aggressività, ma a differenza del terremoto questo ulteriore cataclisma aveva delle responsabilità umane.
Dopo i primi giorni di sconcerto e incredulità, prevalsero la paura e l’incomprensione. Questi stati d’animo hanno accompagnato le persone per tutto il periodo dell’incidente, dalla sua comparsa fino alla bonifica, e hanno influenzato a lungo il giudizio sull’evento, impedendo di comprendere le cause e minando l’identità della comunità locale. Esistevano due atteggiamenti, entrambi legittimi, espressi dai motti: “Seveso, la vita continua” e “Vogliamo verità sull’incidente e sulle conseguenze per la salute”. Solo dopo molti anni questi due approcci si sarebbero riconciliati.
Era terminata un’alleanza tra lavoro e sviluppo che aveva così tanto contribuito al cambiamento del nostro Paese, intere generazioni si erano adoperate nella produzione di beni e di valore che sembrava inverosimile che questa fede nello sviluppo avesse delle conseguenze sul proprio stato di benessere, sulla propria salute, sulla vita familiare, e, più in generale, sulle relazioni e sulla positività della crescita economica.
Era ormai evidente che il ciclo produttivo presentava dei rischi per la salute. Questi rischi erano in parte nascosti sia a chi conosceva il sistema produttivo, sia agli ignari lavoratori che spesso si sforzavano oltre misura per raggiungere i livelli di produttività richiesti dall’economia del tempo, basata su una crescita che allora sembrava fosse illimitata.
Dal 1976 la questione Seveso divenne una questione dirimente per valutare all’interno dei cicli produttivi industriali le conseguenze indesiderate dello sviluppo sulla salute dei lavoratori, ma ancora di più i rischi per il territorio e per l’intera comunità, umana e non.
Da subito l’incidente dell’ICMESA di Meda pose alcune fondamentali questioni: sino a quando è tollerabile accettare i rischi sulla propria salute prima di valutare le ragioni della precauzione? Chi controlla la produzione e quindi conosce la generazione di sostanze inquinanti indesiderate per poterne valutare i rischi? Questi due evidenti problemi rimasero irrisolti per molti anni e posero le basi per un cambiamento totale delle politiche pubbliche in relazione al rischio industriale e al monitoraggio e controllo delle imprese in un’ottica di salvaguardia degli interessi pubblici sulla salute umana e ambientale.
Non è sicuramente stato facile affrontare queste problematiche anche perché in quei giorni si stava assistendo a un tradimento sociale; si rompeva un patto tra la necessità del lavoro, con la straordinaria ricerca scientifica applicata alla chimica che produceva nuovi materiali e innovazione, e la necessità di rispettare e tutelare la salute dei lavoratori, soprattutto delle comunità dei territori.
Per capire com’è stato affrontato l’incidente di Seveso e le sue implicazioni ambientali, sociali ed economiche, è importante considerare anche la comunicazione e l’informazione ai cittadini, ma anche il rapporto tra ricerca scientifica e decisioni politiche necessarie per gestire le conseguenze.
La comunicazione dell’accaduto fu brutale e sconvolgente, trattando le persone quasi come fossero cavie. L’informazione seguì un percorso ideologico alimentando due sentimenti opposti che emergono spesso in caso di gravi incidenti: la minimizzazione e l’esagerazione. Da una parte, si diceva che non fosse successo nulla e che fosse solo una montatura politica, con frasi come “io ci vado a mangiare dove è caduta la diossina“. Dall’altra, si esagerava affermando che la nostra salute sarebbe stata compromessa irreparabilmente, rendendo la vita impossibile: “Ci saranno molte morti premature, non abbiamo altra speranza che fuggire da questi luoghi”. Entrambi i sentimenti alimentarono paura e impotenza, ostacolando la ricerca di soluzioni e favorendo divisioni e conflitti all’interno della comunità, tra persone e famiglie.
La politica non riuscì a gestire adeguatamente la realtà dei fatti e a stabilire un nuovo rapporto con la scienza. Quest’ultima, d’altro canto, concentrata su di sé e poco propensa alla divulgazione, non fornì i dati, certi e incerti, delle proprie ricerche né spiegò i processi in modo comprensibile alle persone. Questa mancanza di coordinamento tra scienza e politica impedì di affrontare l’incidente in modo tempestivo e chiaro, anche considerando che era difficile conoscere subito tutte le cause e le possibili conseguenze.
Per fortuna, però, ci furono alcuni scienziati capaci di stabilire un rapporto con la popolazione, di raccogliere dati – che solo più tardi sarebbero stati analizzati – e ci furono politici che seppero mantenere insieme le persone evitando la diaspora. Questa fu la forza che permise di affrontare la bonifica che seguì e che fu pagata dalla Roche; pratica non sempre verificatasi per i gravi inquinamenti industriali del Novecento. La solidarietà sociale permise, oltretutto, di costituire l’attuale Parco regionale del Bosco delle Querce che nasce proprio sull’area maggiormente colpita dall’inquinamento e che mantiene in sicurezza tutto l’inquinamento prodotto dall’incidente. Questo parco rappresenta un esempio di riscatto contro l’incertezza e la fragilità che hanno accompagnato la vita degli abitanti di Seveso.
La radicalità della situazione, che ha anticipato i tempi del cambiamento, ha, infine, dato sviluppo a nuove politiche ambientali di grande respiro che oggi sarebbero irrinunciabili per la nostra vita e per la sicurezza.
L’incidente ha spinto l’Unione europea, a partire dal 1982, a dotarsi di una politica comune – e quindi di una direttiva – che prende il nome da Seveso, in materia di prevenzione dei grandi rischi industriali.
Negli anni ’90, a seguito del referendum abrogativo con il quale si sottraevano al Servizio sanitario nazionale le competenze in materia di protezione ambientale, nascono le Agenzie Regionali per la Protezione Ambientale che si occupano principalmente di controllare fonti e fattori di inquinamento attraverso il monitoraggio ambientale. Solo in Lombardia sono circa mille i tecnici e gli scienziati che lavorano in ARPA per prevenire e contenere i rischi ambientali derivanti dalle attività umane.
Nel 1986 nasce la Fondazione Lombardia per l’Ambiente (FLA) con l’obiettivo di applicare le competenze tecniche acquisite dalle istituzioni territoriali dopo l’incidente dell’ICMESA. Grazie alla collaborazione scientifica delle principali università lombarde e al sostegno politico della Regione Lombardia, è stato istituito un ente caratterizzato da valori morali e scientifici.
La Fondazione si dedica pienamente alla cura dell’ambiente, un aspetto cruciale per la nostra qualità di vita. Sviluppa progetti, studi e ricerche mirati a supportare amministrazioni locali, istituzioni pubbliche e private, offrendo le competenze scientifiche necessarie per prendere decisioni e promuovere politiche appropriate sia a livello locale che globale.
Nel 2000 i quattro Comuni maggiormente colpiti dall’evento – Cesano Maderno, Desio, Meda e Seveso – hanno iniziato una riflessione sulle conseguenze ambientali e sociali del disastro, avviando un processo di Agenda 21 Intercomunale con l’obiettivo di ripensare in chiave attiva e propositiva al territorio, passando da una logica di “danno” ad una di “opportunità”.
Da questa iniziativa positiva nel 2005 è nata l’Agenzia InnovA21, un’associazione no-profit che attualmente si dedica alla promozione e alla realizzazione di progetti per lo sviluppo sostenibile nella Brianza Ovest, collaborando strettamente con i tecnici delle Pubbliche Amministrazioni. L’associazione, oggi composta da dodici soci, rappresenta un luogo di condivisione di esperienze e di progettazione di soluzioni innovative per affrontare le nuove sfide ambientali, come quelle legate alla crisi climatica. L’Agenzia ha sviluppato progetti urbani, energetici, di mobilità sostenibile e di miglioramento del verde urbano, partendo proprio dalla collaborazione con le Pubbliche amministrazioni che oggi, a distanza di 38 anni dall’incidente, sono impegnate a creare un’opportunità di sviluppo che metta l’ambiente e la salute al centro dell’esperienza umana.
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