Si può avere paura di scavallare la soglia dei 361 voti, quando se ne hanno a disposizione 399? Si può, anzi si deve, specie se ci si chiama Ursula von der Leyen e il teatro in cui andrà in scena lo psicodramma del voto si chiama Parlamento europeo. Man mano che la sabbia nella clessidra scorre, e la data fatidica del 18 luglio si avvicina, le trattative si fanno più frenetiche, più complesse e – se vogliamo – più ciniche.
La presidente uscente della Commissione UE lo sa bene. Cinque anni fa scavalcò l’asticella per il rotto della cuffia, andando a negoziare direttamente il voto con le singole delegazioni nazionali, e convincendo i grillini e i polacchi del PIS. Allora la sommatoria degli europarlamentari appartenenti alle tre grandi famiglie politiche che a parole le avevano assicurato appoggio (popolari, socialisti e liberali) era più ampia di oggi (444 voti), e i franchi tiratori furono calcolati in una sessantina. Se fossero altrettanti, kaputt. Ecco perché la solerte politica tedesca si è messa pazientemente al lavoro per tessere la sua tela, incontrando tutti i gruppi politici, o quasi. Il “quasi” è relativo al neonato gruppo dei “Patrioti”, numericamente il terzo dell’assemblea, con i suoi 84 deputati di 12 Paesi, eletti dai cittadini europei ma considerati sostanzialmente “appestati”, non degni neppure di un colloquio protocollare. Stiamo parlando di Salvini, Le Pen e Orbán (oltre ad altri 10 partiti nazionali).
Visto che i partiti europei sono galassie gassose e scarsamente compatte, i grattacapi di von der Leyen cominciano in casa, fra le fila del suo PPE. Già la sua designazione come spitzenkandidat era stata quanto mai sofferta. Al congresso di Bucarest su 801 delegati solo 499 avevano partecipato al voto, e 89 le avevano pure negato il consenso. A poco valgono le minacce del capogruppo Manfred Weber (quello che cinque anni fa le dovette cedere il passo) di “seri provvedimenti” per chi dovesse tradire la disciplina del gruppo. E infatti all’incontro di ieri fra la candidata al bis e gli europarlamentari popolari mancavano proprio quelli meno convinti di rinnovarle il sostegno, i repubblicani francesi, gli sloveni dell’SDS, i croati dell’HDZ. Brutto segno.
In una situazione così incerta tutti si sentono indispensabili e in diritto di alzare il prezzo. I socialisti, ad esempio, reclamano tre commissari al lavoro, al Green Deal e all’emergenza abitativa, oltre a una totale chiusura non solo ai Patrioti, ma anche ai conservatori di Meloni. I socialisti premono per un allargamento del perimetro della “maggioranza Ursula” ai Verdi, ma su questo il no di molti popolari (a cominciare da Forza Italia) è categorico, sollecitando piuttosto una correzione di rotta sulla transizione ecologica, giudicata troppo spinta e troppo ideologica, tanto sull’auto elettrica quanto sulle case green. Una larga fetta del PPE, piuttosto, suggerisce a von der Leyen di parlare proprio con i conservatori.
Una ragnatela di veti incrociati che costringe von der Leyen a trattare più con i singoli parlamentari, o con singole delegazioni di partito, che con le grandi famiglie politiche europee. E in questa chiave i 24 voti di Fratelli d’Italia fanno gola, soprattutto se separati dal resto del gruppo conservatore. E la Meloni potrebbe gettarli sul piatto della bilancia all’ultimo minuto, uscendo con un colpo di reni dalla posizione di marginalità in cui si è trovata dopo il vertice della spartizione dei “top jobs”, magari con la promessa di una buona poltrona di commissario per l’Italia.
Al momento nulla è scontato. Il voto di conferma del presidente della Commissione europea è segreto, e la “campagna acquisti” di von der Leyen potrebbe anche rivelarsi insufficiente a compensare i dissidenti. Una bocciatura del candidato non si è mai verificata, ma l’ipotesi merita di essere presa in considerazione. Qualora si verificasse, il processo di nomina ripartirebbe da zero. La palla tornerebbe al Consiglio, cioè ai capi di Stato e di governo, e von der Leyen uscirebbe inevitabilmente di scena. Per la credibilità delle istituzioni europee sarebbe una mazzata durissima. E per rimarginare la ferita occorrerebbe tempo, se ne parlerebbe solo da settembre in poi.
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