Chi comanda a Berlino?”. Era la fine di luglio del 1914 e la domanda – attribuita al ministro degli Esteri austro-ungarico Leopold Berchtold – è rimasta famosa nella sua accezione sinistra e tragica. Nelle ore febbrili che decretarono lo scoppio della Prima guerra mondiale, a Vienna non era affatto chiaro “chi comandasse a Berlino” (il kaiser, la cancelleria, lo stato maggiore imperiale) e se la Germania preferisse davvero la guerra a una soluzione diplomatica alla crisi serba. Nessuno, comunque, si preoccupò di spiegarlo da Berlino o di capirlo da Vienna: e fu la scintilla finale sulla miscela esplosiva in preparazione dall’attentato di Sarajevo.
“Chi comanda a Washington” oggi, anzi: “chi comandava” – fra Casa Bianca, alta amministrazione, Pentagono e Congresso, all’epoca dell’abbandono dell’Afghanistan? E poi nelle settimane in cui la Russia stava preparando l’aggressione all’Ucraina? E nella manciata di giorni e ore a cavallo del 24 febbraio 2022? E poi da allora per 869 giorni? E infine prima, durante e dopo il 7 ottobre scorso a Gaza? Fino nelle ultimissime ore, al vertice Nato di Washington, dove nessuno – neppure il presidente ucraino Volodymyr Zelensky – ha capito esattamente se la guerra in Ucraina è destinata o no a continuare “fino alla vittoria definitiva dell’Occidente”.
Chi mostra invece di aver capito che a Washington – per molti versi – non c’è nessuno a comandare è il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Inseguito da settimane da un avviso di garanzia per crimini di guerra nella risposta militare all’aggressione di Hamas, al 270esimo giorno di crisi Netanyahu ha ordinato un’ennesima offensiva sanguinosa contro Gaza City, avvertendo i civili “ad horas” con qualche manciata di volantini. E questo dopo innumerevoli ultimatum della Casa Bianca, dopo una routine divenuta quasi grottesca di voli a Gerusalemme, Doha e Cairo da parte del segretario di Stato Usa Antony Blinken e del consigliere per la sicurezza nazionale Jack Sullivan, braccio destro e sinistro di Joe Biden sullo scacchiere geopolitico.
Ma chi può o vuole dar retta ad altissimi funzionari – di fronte ai quali di norma mezzo mondo scatta sull’attenti e l’altra metà ascolta attenta – se al quartier generale non c’è (più) un leader credibile? È già molto che in questo scenario non si faccia strada qualche istinto di criminalità geopolitica, peraltro sempre in agguato. Oppure che non si verifichino – come nel luglio di 110 anni fa – blackout di comunicazione, errori interpretativi, conflitti di potere, ritardi nelle decisioni.
Il vero “caso Biden” appare questo: non se il presidente in carica possa o debba ricandidarsi contro Donald Trump fra quattro mesi. E la crisi della democrazia americana (dal 1776) è drammaticamente contemporanea alla crisi della democrazia francese dal 1789.
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