Una scuola che ha esteso la condizione esistenziale del precariato dal livello delle risorse umane ai contenuti stessi sembra accontentarsi di un tempo-scuola ridotto in pillole e di un sapere frammentato, privo di profondità spazio-temporale, dunque privo di memoria. Un recente sondaggio di skuola.net rileva che la metà degli studenti italiani giunge all’esame di maturità conoscendo appena la storia fino alla Seconda guerra mondiale. Per restituire valore a questa disciplina nei percorsi didattici, il “Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità” ha pubblicato (giugno 2024) una lettera al ministro Valditara in cui si propone, tra l’altro, una prova scritta di storia negli esami e l’aumento delle ore di storia, con scansione “a spirale”.
La “scuola dell’autonomia” soffre tuttavia, non da oggi, di un accentramento burocratico che produce sempre più frammentazione nei percorsi educativi, secondo un’eterogenesi dei fini per la quale più lotta contro la parcellizzazione e più sembra produrne, come uno sventurato che si agiti nelle sabbie mobili nell’illusione di poterne uscire.
In effetti, se la scuola ha bisogno di ritrovare un senso del proprio esistere, ecco allora l’importanza della storia quale custode della tradizione, intesa come legame vivo tra passato e futuro e coscienza di identità collettiva: territoriale, nazionale, europea, cosmopolita. Ma come ristabilire questa centralità, e come garantire che la memoria storica non sia ridotta a una funzione meramente ideologica?
Certamente occorrono insegnanti ben formati, consapevoli del significato educativo della disciplina che insegnano, ma soprattutto appassionati ai problemi del presente e capaci di veicolare questa passione ai ragazzi: il passato assume infatti sempre nuova rilevanza secondo le domande che il presente di volta in volta sa porre. Da questo punto di vista, non è poi così rilevante quale sia l’epoca che viene interrogata: sarebbe un errore di prospettiva pensare che l’età contemporanea sia necessariamente più vicina al sentire dei ragazzi di quanto non lo sia il tempo delle invasioni barbariche, o di Dante, o di Leonardo. Se una delle finalità della storia è imparare a conoscere l’altro, proprio la distanza temporale può aiutare in questo: essendo l’altro portatore comunque della nostra stessa umanità, è proprio nella differenza e nella distanza, temporale o geografica, che un ragazzo impara a riconoscere l’umano che porta in sé. I desideri, le sofferenze, gli ideali collettivi di un tempo altro non sono mai uguali, ma ci richiamano in qualche misura al nostro stesso vissuto, offrendo tuttavia una prospettiva di profondità che le mere informazioni da sole non possono fornire.
Per giungere a questa empatia occorre imparare un metodo dell’approccio al vissuto degli uomini del passato, che chiamerei di immedesimazione, secondo la prospettiva feconda della narrazione storica. È una prospettiva e un approccio al presente del passato che chiede tempo, lavoro, relazione e passione per ciò che si comunica.
È una dimensione di cui personalmente ho potuto fare esperienza più intensa in prossimità del mio passaggio alla pensione, quando mi sono impattato nella scoperta del diario di guerra di mio nonno. Lì, nell’approfondimento di testi e documenti, mi si è rivelato il metodo adeguato all’oggetto: la storia della Grande guerra attraversata da mio nonno non poteva essere compresa a fondo se non nella misura in cui la mia lettura e la mia scrittura si immedesimavano in modo sempre più immersivo col suo vissuto. Quando poi, ormai in pensione, sono tornato nelle scuole a presentare il libro nato da quel mio lavoro, ho potuto riscontrare come il metodo della narrazione possa davvero riconquistare i ragazzi a una domanda sul passato. Una domanda che può nascere dalla scoperta che dentro ai libri è sempre depositato il segreto di uomini vivi che hanno vissuto il loro presente fino in fondo. Come scrive Alessandro Baricco, riferendosi al film Schindler’s list: “È il racconto della realtà che ti incunea la realtà nella testa, e te la fa esplodere dentro. I fatti diventano tuoi o quando ti schiantano la vita, direttamente, o quando qualcuno te li compone in racconto e te li spedisce in testa […]. Il racconto, non l’informazione, ti rende padrone della tua storia” (A. Baricco, Barnum, Milano 1995, p. 88).
Come dunque restituire centralità alla didattica della storia? Certamente occorre ridare a questo insegnamento un minimo di dignità: in due ore alla settimana ben poco si può fare, per aggiunta in classi spesso numerose. Ma la storia ha una funzione più alta, che trascende la pur legittima rivendicazione di uno specifico curriculum: al di là degli aspetti superati della riforma Gentile, il valore umanistico che nella nostra scuola permane consente ancora una centralità dell’approccio storico (non storicistico) anche in altre discipline: arte, letteratura, scienze, filosofia e infine l’educazione civica, su cui si concentra oggi l’attenzione, ma che sarebbe del tutto astratta se immaginata al di fuori del contesto entro cui si è generata la nostra civiltà, dalla polis al diritto romano, dalle grandi costituzioni dell’età moderna alla nostra costituzione repubblicana: tutto è inevitabilmente intriso di storia e memoria, di ideali e battaglie vittoriose o fallite.
Ecco allora che un ripensamento didattico della storia nella prospettiva di questa sua centralità negli studi umanistici e scientifici può nascere anche dal superamento dell’atavico individualismo degli insegnanti: perché non pensare a programmazioni didattiche multidisciplinari costruite sull’asse temporale? Non è necessario che un insegnante conosca tutto del passato – questo sarebbe semplicemente sovrumano –, ma è importante che il docente si lasci interrogare, sia curioso rispetto ai dati che affiorano e contagi gli studenti con questa sua curiosità: che desideri per esempio portarli nella biblioteca scolastica, dove potrà suggerire libri utili a lavori di gruppo sulla base di un’ipotesi di lavoro, oppure invitare storici e giornalisti a parlare dei temi con cui hanno più confidenza e che investono l’attualità.
Occorre anche che gli insegnanti non si lascino determinare nella loro programmazione dal manuale: il manuale è utile e necessario, ha una funzione di richiamo all’oggettività del dato, ma diventa interessante soltanto in un dialogo critico, comparativo e interpretativo nel quale docente e ragazzi sono coinvolti: la libertà di insegnamento non si riduce allora a mero soggettivismo, ma è motore di libertà e di consapevolezza critica nella comune ricerca di un significato proprio degli eventi, che nessun manuale e nessuna direttiva ministeriale può pretendere di possedere in esclusiva.
Solo così la storia può tornare a essere, dentro a una relazione viva, un oggetto affascinante per il docente e per lo studente. Con questo approccio di libertà è anche possibile che, dentro a gruppi di lavoro tra colleghi senior e più giovani – di uno di questi chi scrive sta facendo esperienza – si possa condividere un ripensamento critico della programmazione didattica, una ricalibratura non condizionata dall’ansia onnivora di fare tutto, ma preoccupata piuttosto di fare bene, anticipando parti di programma o riducendone altre, in modo che il percorso didattico, pur conservando la continuità cronologica, sia più preoccupato di individuare e approfondire quei nodi vitali che danno senso a una data epoca: la coperta è sì corta, ma anche perché è chiamata a coprire sempre più cose.
Il risultato potrà essere quello di individuare nella storia recente aspetti e temi più importanti dei famosi “dinosauri”, ma tutto nel rispetto della conoscenza storica e al di là di ogni riduzione ideologica. La storia è scienza sui generis degli eventi umani del passato, in quanto umani e in quanto del passato. Il presente interroga questo passato, non può però manipolarlo o tanto meno cancellarlo, magari in nome del “politicamente corretto”.
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