La cosa che colpisce di più, ripensando all’esperienza di Viaggio in Italia quarant’anni dopo, è quella mappa che era stata messa in copertina al catalogo della famosa mostra aperta a Bari nel 1984, un’immagine un po’ enigmatica, che però ne segnalava bene il senso: una carta geografica dell’Italia, di quelle che ancora negli anni 60 stavano appese in tutte le aule di scuola di noi boomers, un disegno simbolico che faceva subito capire che quel viaggio, sì, i venti fotografi coinvolti da Luigi Ghirri in quell’avventura lo avevano fatto davvero (ma poi neanche tutti), ma rinviava a un viaggio anzitutto mentale, psicologico, culturale. Molto più vicino, a ben vedere, alle discese settecentesche di Goethe, richiamate dal titolo in forma non poi tanto ironica, in un Paese straniero affascinante e impegnativo da decifrare.
È una terra in un certo senso straniera anche quella che aveva davanti agli occhi Ghirri con il manipolo di innovatori della fotografia che aveva raccolto. Lui sapeva benissimo che quell’itinerario doveva percorrerlo prima e primariamente da un punto di vista concettuale, per arrivare a inquadrare davvero quella nuova Italia, modificata in pochi decenni dall’industrializzazione, dall’edilizia forsennata, dalla gentrificazione che stava davanti ai loro occhi e a quelli di tutti.
Il proprio viaggio in Italia, in realtà, ognuno di quei fotografi se l’era fatto a modo suo, qualcuno lo aveva cominciato diversi anni prima, alla fine dei 70; qualcun altro, come Roberto Salbitani, si era sfilato all’ultimo momento ed era sceso dal treno in corsa, proprio perché si era convinto che quello non fosse “per niente un viaggio”, al massimo “un viaggio stando fermi”. Eppure tutte le strade di quei venti ed eterogenei autori, come in un pellegrinaggio medievale, avevano finito per convergere là, in quella strana Pinacoteca Provinciale che aveva dato precario asilo al loro progetto, esporre quel loro viaggio mentale che, un po’ oscuramente lo intuivano, avrebbe cambiato per sempre il nostro modo di vedere l’Italia. Ma anche il nostro modo di intendere la fotografia; e questo forse non tutti lo avevano compreso.
Luigi Ghirri sì. Lui che aveva raggiunto le cime delle Dolomiti osservandole su una carta militare; lui che aveva scoperto le bellezze dello Stivale visitando Minitalia a Capriate San Gervasio; lui che aveva scrutato con commozione poetica il mappamondo immaginandosi la serie di tutti i percorsi e i descobrimentos umani, sapeva che nel simbolo c’è già tutto l’oggetto, e soprattutto che non c’è nessun oggetto senza un simbolo che ci permetta di riconoscerlo e di interpretarlo.
È questa la post-modernità del progetto Viaggio in Italia, come ha scritto giustamente Marco Bertoli, un modo di tentare di superare la modernità, con le sue leggi ferree e anche le sue ideologie, irrazionali o razionali che fossero, muovendosi in direzione di un campo più aperto.
Era un’avventura, cruciale, anche per la cultura progressista italiana, come ha ricordato giustamente Arturo Carlo Quintavalle nell’incontro in Accademia Carrara a Bergamo che ha avviato la fortunata serie di presentazioni del libro di Corrado Benigni Viaggiatori ai margini del paesaggio (La nave di Teseo, 2024) che ha riacceso i riflettori su quel 1984: così tempestivo, viene da pensare, da non essere affatto casuale.
Dice Quintavalle, che a suo tempo fu il critico più attento e anche in qualche modo il teorico, con Ghirri, dell’operazione: “Non è vero che questi venti fotografi siano dei creatori estetizzanti al di fuori delle questioni politiche, sono dentro il dibattito di quegli quegli anni e forse anche per questo hanno lasciato il segno”. Ricorda “i libri che erano nelle biblioteche di tanti di loro”, da Horkheimer ad Adorno, da Musil a Marcuse, da Walter Benjamin a Merleau-Ponty: una cultura che, “invece di accogliere la tesi apocalittica sulla società del consumo, ne rivendicava con spirito critico l’analisi”.
Era su questa linea certamente Ghirri, la guida del gruppo, il “rabdomante”, come si definiva lui; forse bisognerebbe dire anche il mecenate, non perché ci abbia messo dei soldi (quei pochi che aveva ce li mise davvero) ma perché è stato la testa pensante capace di avviare il processo e di aggregare. Poi però bisogna ricordare anche gli altri 19, e per una volta elenchiamoli tutti, perché alcuni sono diventati negli anni molto famosi, altri sono tornati nell’ombra: Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Giannantonio Battistella, Vincenzo Castella, Andrea Cavazzuti, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci, Vittore Fossati, Carlo Garzia, Guido Guidi, Shelley Hill, Mimmo Jodice, Gianni Leone, Claude Nori, Umberto Sartorello, Mario Tinelli, Ernesto Tuliozi, Fulvio Ventura, Cuchi White. Autori molto diversi fra loro, a partire da quei sette che Benigni ha selezionato come “praeclara exempla”, lavorando in maniera seria e intelligente per anni all’interno del loro percorso, facendosi raccontare in presa diretta i fatti dai protagonisti, almeno quelli che sono rimasti: Ghirri e Basilico infatti se ne sono andati già da diversi anni, e l’ottobre scorso è morto anche Chiaramonte.
Era, ricorda Benigni, con le parole del catalogo originale, “una generazione di fotografi che, lasciato da parte il mito dei viaggi esotici, del reportage sensazionale, dell’analisi formalistica e della creatività presunta e forzata, ha invece rivolto lo sguardo sulla realtà e sul paesaggio che ci sta intorno”. Un gruppo che voleva tenersi a distanza dalla visione elegante ma convenzionale dell’Italia offerta da famose collezioni come quelle dei Fratelli Alinari, che voleva andare pure oltre il fotoreportage e oltre la documentazione etno-antropologica.
Gianni Leone ha raccontato che non realizzò neppure foto originali per Viaggio in Italia, “la più recente era del 1983 ed era stata scattata a Scanno. Credo che quasi nessuno abbia realizzato fotografie specificamente per questo progetto”. Conferma Giovanna Calvenzi, moglie di Basilico: “Luigi non chiese a quei fotografi di raccontare il loro punto di vista sull’Italia, ma aveva avuto l’idea di coinvolgere una serie di autori e amici che stavano già lavorando in una direzione che era quella che lui voleva portare avanti: raccontavano una qualità del territorio e del paesaggio che stava attraversando un momento di grande sofferenza. Noi ci siamo resi conto come cittadini che il mondo era cambiato, che il nostro paese non era più tanto bello”.
Anche Mario Cresci ci offre uno squarcio non retorico e sincero di quel momento: “Allora non sapevamo che stavamo facendo un lavoro così significativo. Non avevamo coscienza di quello che stava accadendo. All’inizio degli anni 80 la fotografia e tutti noi eravamo visti in maniera molto marginale. Luigi aveva problemi di lavoro, io a Matera facevo il grafico per campare: noi stessi eravamo in questa marginalità” che le loro foto rappresentavano.
Ma cos’è stato allora, davvero, questo esperimento così riuscito? Un gigantesco trompe l’oeil?
Tutt’altro: è stato la messa in mostra esattamente di ciò che si voleva dire, e cioè che il mondo si percorre, appunto, prima sulla mappa geografica che in automobile. Perché senza una “cultura” (fare memoria e interpretare) non saremmo mai in grado di raggiungere i campanili e i castelli di questo Paese, le Dolomiti e la casetta di Stigliano, il porto di Bari e la Torre di Pisa, le stanze di una casa di Pescara e le angurie di Follonica. C’è un fondo persino magrittiano in questo Viaggio, sotto il quale potremmo scrivere la didascalia: Ceci n’est pas l’Italie: ne è solo una raffigurazione anticonvenzionale data attraverso un mezzo nuovo e mobile, la fotografia.
Eppure, e qui sta la sorpresa, mai nessuno aveva offerto un ritratto così realistico, così preso “dal basso” del nostro Paese, così articolato, completo, familiare. Persino così affettuoso. Ecco, il “concettuale” (tutti gli anni della sperimentazione artistica che precedono quel 1984, e che gente come Ghirri, Chiaramonte e soprattutto Cresci conoscevano più che bene), attraverso quel percorso verso Bari era diventato qualcosa di affettivamente connotato: improvvisamente anche il secondo Novecento, secolo della tecnica, adoperando un mezzo meccanico oggettivo e “freddo” come la fotografia rivelava di poter esprimere sentimenti complessi, sottili, come attenzione, dedizione, attesa, passione, stupore, ammirazione, esattamente come per secoli si era fatto usando il pennello.
Forse proprio per questo ai fotografi di Viaggio in Italia non piaceva essere chiamati artisti, perché sapevano benissimo di esserlo, ma in modo radicalmente nuovo, e non volevano che questo shift semantico venisse registrato in fretta come una nuova variante “automatica” del dipingere la realtà.
La rivelazione di quel Viaggio fu un po’ questa: la fotografia è la registrazione en plein air dell’estetica del nostro tempo, un tempo nuovo; l’Impressionismo è finito, lasciatelo ai muri delle pizzerie e ai vaghi visitatori di mostre ottocentesche della domenica, chi indulgerà ancora sul pittorialismo, sul cartolinismo, sulle vedute monumentali, chi andrà ancora a ritrarre impunemente la Torre pendente di Pisa o Piazza San Pietro o il Duomo di Monreale pensando di esprimere in quella maniera l’Italia contemporanea, come direbbe Czeslaw Milosz, “avrà la mano mozzata”.
È una cesura “Viaggio in Italia”, è “una fotografia di rottura” (Quintavalle), un colpo di scure, non uno squillar di trombetta che chiamava a raccolta anime un po’ intellettuali e introverse.
Ghirri, che era un uomo gentile e attento, silenzioso e accanito, sapeva benissimo che quell’itinerario era un colpo di cannone: era la sua rivoluzione, il suo modo di far evolvere l’occhio e riportarlo al passo – qui sta il punto – con la trasformazione, ormai avvenuta, del nostro paesaggio.
Ecco allora che si comincia a capire il cannocchiale sul balconcino di Capri che Ghirri aveva ripreso nel 1982 e che Benigni ed Elisabetta Sgarbi hanno messo in copertina al libro: in uno dei luoghi più “pittoreschi” d’Italia fotografare non lo sfondo del mare con l’ingresso della Grotta azzurra, né qualche coppia di giovani fidanzati abbracciati nell’idillio fuggente, e puntare invece sulla solitudine di quello strumento tecnico nudo e in quel momento inutilizzato. Gli ingredienti di un vedutismo tradizionale c’erano tutti quel giorno, lo scorcio straordinario, la giornata di cielo sereno, la balaustra libera che sembrava fatta apposta per un selfie: Ghirri invece punta tutta la sua attenzione su questo “visore” artificiale che è stretto parente di una macchina fotografica dotata di teleobiettivo, suggerendoci la prospettiva contenuta nel suo cilindro metallico, che esso non ci può mostrare ma solo indicare all’orizzonte. Perché è una prospettiva concettuale quella del cannone-occhiale, feticcio galileiano, un processo di “messa a fuoco” infinito ogni volta provvisorio e molto personale: esattamente come il viaggio conoscitivo che suggeriva la cartina stampata sulla copertina del catalogo di Bari.
Ha scritto bene Francesca Zanette, su Doppiozero, che tutti noi oggi fotografiamo, inconsapevolmente, un po’ “à la Ghirri”, mettendo a fuoco manifesti strappati, oggetti insignificanti, distributori di benzina in aperta campagna. La rivoluzione si compie quando diventa routine. Ma anche si spegne. Se Ghirri e i suoi hanno influenzato il modo di vedere di un paio di generazioni non solo di fotografi ma anche di architetti e di scrittori, di artisti figurativi e registi di cinema, va detto anche che oggi con i nostri smartphone sempre in mano “ciò che era in origine un dispositivo critico per la conoscenza e la comprensione del mondo si è trasformato in ulteriore strato di opacità, in un riflesso automatico e cieco” che tende a sostituirsi alla realtà, e non in “uno strumento di rivelazione: proprio il contrario, insomma, di ciò che Ghirri e i suoi compagni di strada avevano immaginato e realizzato”.
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