La Cina, a causa degli strascichi del Covid e dei dazi e delle sanzioni USA, non cresce più come prima. E la gente comincia a pensare che si stia andando verso una rinuncia al libero mercato, optando per un ritorno alla centralizzazione dell’economia. Per questo, l’obiettivo del plenum del Partito comunista cinese, al di là delle voci che ipotizzano un aumento delle tasse, è di trovare una narrazione rassicurante presentando, non senza forzature, l’attuale presidente Xi Jinping come il continuatore delle politiche dell’indimenticato Deng Xiaoping, che cambiò radicalmente l’economia cinese garantendo maggiore benessere a tutte le classi sociali.
Le autorità cinesi, spiega Massimo Introvigne, sociologo fondatore del Cesnur e del sito Bitter Winter, non vedono di buon occhio l’arrivo di Trump, soprattutto dopo la scelta di Vance come vice: da loro ci si aspettano solo altri dazi e sanzioni. Ma sperano di trovare un accordo con la Ue, convincendola a non mettere ostacoli alla libera circolazione delle merci.
Il plenum del Partito comunista cinese mette a tema i problemi economici del Paese. Come cercherà di risolverli?
Il plenum è segreto, ci sarà uno scarno comunicato stampa alla fine che non dirà nulla, il che finisce per alimentare le più bizzarre dicerie. Una, poco credibile, è che Xi avrebbe avuto un collasso nel corso dell’incontro, ma è il tipico humor da opacità del plenum. Una seconda, rilanciata da fonti più serie, è che si starebbe varando un piano di aumento delle tasse. In Cina sono basse, ma la cosa, naturalmente, preoccupa i cinesi.
C’è un modo per capire che aria sta tirando?
Ciò che si può fare per capirne di più è guardare il tipo di propaganda, vedere come le tv cinesi e gli account social del partito presentano il plenum. Il tema dominante è quello di Xi Jinping presentato come nuovo Deng Xiaoping. Nella realtà cinese quest’ultimo non è mai andato via: come scrive il corrispondente di Bitter Winter dalla Cina, in tutte le riunioni di partito si intona una litania che cita Marx, Lenin, Mao, Deng Xiaoping e Xi Jinping. Ora tuttavia c’è un tentativo molto forte di presentare Xi come continuatore dello stesso Deng, una risposta alle voci critiche che accusano l’attuale presidente di smantellare le riforme del leader degli anni 80, puntando a una gestione più maoista, centralizzata e dirigista, sia della politica sia dell’economia.
Il Paese abbandona il libero mercato?
È l’impressione che hanno i cinesi. E non è una cosa molto popolare, perché se è vero che Deng non ha democratizzato un bel nulla, ha però reso i cinesi più ricchi (o meno poveri) e per questo ha lasciato il segno. La propaganda, che non dice la verità ma permette di capire quali sono le preoccupazioni del partito, racconta che in realtà una delle riforme di Deng Xiaoping, quella dell’agricoltura, lo smantellamento delle comuni e il ritorno alla conduzione familiare e individuale, sarebbe avvenuta in buona parte perché uno studente universitario andò nella provincia dell’Anhui a studiare un esperimento di decollettivizzazione che fece colpo. Questo studente sarebbe stato Xi Jinping.
Una storia vera o mitologia comunista?
Xi stesso la raccontò per la prima volta nel 2016. Alcuni studiosi hanno fatto delle verifiche concludendo che è impossibile che sia successo, ciò non toglie che ci abbiano fatto un film che passa tutti i giorni durante il plenum e uno spot trasmesso sui social continuamente.
Qual è il vero problema dell’economia cinese oggi?
Non è un problema di collettivizzazione o dirigismo, ma di crescita molto modesta, che paga l’errore della politica dissennata dello zero Covid: una palla al piede che la Cina si porterà dietro per molti anni. Ma ci sono anche scelte sul piano internazionale: il sostegno alla Russia ha delle ripercussioni, con sanzioni a ditte cinesi e un atteggiamento protezionista da parte dell’America e qualche segnale anche dall’Europa. La Cina non è alla bancarotta, l’economia è più solida di quella russa e per certi versi non è tanto peggiore della nostra, pur tuttavia i cinesi erano abituati dai tempi di Deng a statistiche sempre in crescita, che adesso ristagnano.
Le prospettive, insomma, non sono rosee come prima. A maggior ragione vista la probabile elezione di Trump alla Casa Bianca?
I cinesi, a differenza dei russi, non sono entusiasti della possibile vittoria di Trump e della scelta di Vance come vice: pur essendo meno antirussi dei democratici, continuerebbero a sanzionare la Cina, non più perché sostiene Mosca, ma perché fa sovrapproduzione e dumping e danneggia l’economia americana. La vittoria di Trump non porta niente di buono dal punto di vista economico, essendo isolazionista è anche protezionista e nel suo programma c’è scritto con chiarezza che i dazi e le sanzioni alla Cina verrebbero rinforzati.
Il dilemma del plenum, quindi, è se abbandonare il libero mercato e tornare a una politica più accentratrice e statalista?
Non è tanto un problema del plenum, ma una tendenza che si è vista negli ultimi anni, più per ragioni politiche che economiche: quello che muove questa posizione è il timore che capitalisti troppo liberi di prendere le loro decisioni diventino un contropotere che disturbi il partito comunista. Il problema vero è trovare una narrativa che tenga buoni i cinesi, inquieti di fronte a una mancata crescita che né più centralismo né meno centralismo potranno contrastare, perché dipende da altri due fattori che la Cina non può controllare: le conseguenze della fermata durante il Covid, da cui non si può tornare indietro, e la politica anti-economia cinese che, sia pure per ragioni diverse, è condivisa da democratici e repubblicani.
Questo contesto potrebbe far cambiare idea a Xi sulla politica internazionale e sulle sue alleanze?
No. La stampa cinese dice che, secondo gli analisti di Xi, vincerà Trump, la cui politica anticinese non è mossa dall’Ucraina, ma dal desiderio di proteggere l’industria americana dalla concorrenza di Pechino. Trump “picchierà” sulle esportazioni cinesi per ragioni di protezione degli elettori americani. Quello che cerca di fare il plenum è solo di trovare una narrazione rassicurante. Al record di crescita la Cina non tornerà per un po’. La sua economia ha una solidità di fondo e tornerà a camminare, ma per smaltire le conseguenze del Covid ci vorranno anni e l’atteggiamento americano disturba e frena questo processo. E non si vedono cambiamenti, chiunque vinca le elezioni USA.
Questa crisi come può cambiare i rapporti della Cina con il resto del mondo, con l’Europa ad esempio?
Il Paese cresce poco e se non cresce rimane comunque stabile. La crisi, insomma, non va esagerata, anche se prima la Cina ci aveva abituato a battere record ogni anno. Quello che ci possiamo aspettare, e lo stiamo già vedendo, è un’offensiva economica nei confronti dell’Europa per convincerla che un commercio con la Cina libero e senza freni è nel suo interesse.
Opporranno dazi cinesi ai dazi europei?
Pechino cercherà di trovare la quadra con la Ue, per avere relazioni economiche migliori. Il problema è che in Europa non c’è Trump e qui le questioni di politica internazionale continueranno a pesare anche se vincono i repubblicani.
(Paolo Rossetti)
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