Gli europarlamentari di Forza Italia (otto gli eletti il 9 giugno) hanno votato la fiducia alla Presidente designata della Commissione Ue, Ursula von der Leyen: al contrario di Fratelli d’Italia e Lega, partner di maggioranza a Roma. Il passo era in sé atteso: FI è affiliata al Ppe, che all’ultimo voto aveva in von der Leyen (Cdu tedesca) la propria candidata di punta per Bruxelles. E lo stesso Ppe aveva formalmente fatto propria – assieme a socialdemocratici e liberali europei – l’indicazione uscita dal Consiglio Ue, su spinta di Francia e Germania e con l’astensione italiana. Il “voto disgiunto” di Fi a Strasburgo appare tuttavia meno scontato se osservato da altre angolazioni.
La principale: i 401 voti (sul plenum di 720) che hanno legittimato “Ursula” corrispondono sì nominalmente alla somma delle rappresentanze di Ppe, S&D e Renew. Ma giovedì scorso è subito divenuto notorio il sostegno decisivo giunto, a voto segreto, da un pattuglione di europarlamentari verdi (la maggioranza fra i 53 del gruppo). Inizialmente esclusi dal perimetro della nuova coalizione europea, gli ecologisti sono stati fatti rientrare in corsa per la necessità di colmare il pericoloso vuoto lasciato aperto da una quarantina (almeno) di “franchi tiratori” individuati alla vigilia del voto segreto.
Fra gli “obiettori” sono stati da subito indiziati parecchi europarlamentari tedeschi, anzitutto popolari progressisti (all’opposizione in Germania) e socialdemocratici avversari irriducibili dell’ex ministro della Difesa tedesco. Al posto loro avrebbero votato “sì” una dozzina di Grunen tedeschi (da sempre maggioranza e guida del gruppo ecologista a Strasburgo), trascinandosi dietro almeno un paio di decine di colleghi.
Già nel 2019 a von der Leyen era mancato in Consiglio Ue l’appoggio della “sua” Cancelliera Angela Merkel, per l’opposizione della Spd (il cui leader era Olaf Scholz, oggi Cancelliere). Cinque anni dopo le resistenze tedesche a “Ursula” si sono dunque riproposte: mitigate solo dalla debolezza interna e internazionale di Scholz e dalla presenza dei Grunen nella maggioranza di Berlino. L’appoggio ecologista a “Ursula” non è stato però senza prezzo. Il discorso programmatico è stato in extremis “risciacquato di verde”: controcorrente rispetto a un esiti elettorali dello scorso giugno, nettamente punitivi dell’ambientalismo “in stile Greta”; e non senza una provocazione ultima alla Premier italiana Giorgia Meloni e a Fratelli d’Italia (ancora all’ultimo aperti alla fiducia).
È in questa cornice che il “sì” di FI spicca per più un motivo. Anzitutto: non è vero che tutti gli europarlamentari “di maggioranza” (in particolare i popolari) siano risultati leali alla “disciplina dell’euro-partito” al primo e forse più importante voto della nuova legislatura. Alcuni hanno invece votato in libertà, mostrandosi molto più sensibili e flessibili verso le dinamiche politiche nazionali: di partito, maggioranza e Governo (anche i verdi francesi sono a un passo dall’entrare al Governo, sostenendo lo spregiudicato “ribaltone” tentato dal Presidente Emmanuel Macron dopo la sconfitta all’euro-voto).
Se la stima di una quarantina di “franchi tiratori” è probabilmente scorretta per difetto, giovedì mattina a Strasburgo la maggioranza-fiducia a von der Leyen era comunque in bilico. C’è quindi una buona probabilità che anche i voti “fedeli” FI si siano rivelati decisivi: come lo erano stati cinque anni fa – per von der Leyen-1 – una manciata di europarlamentari M5S “verdeggianti”. Questi trassero d’altronde le conseguenze del voto favorevole del Premier M5S Giuseppe Conte in Consiglio Ue, incurante delle riserve della Lega allora partner di maggioranza e reduce da uno schiacciante successo all’euro-voto, disastroso invece per i grillini. Ma – soprattutto – quando “Ursula” passò a fatica la fiducia a Strasburgo, a Roma erano già iniziate la manovre per il “ribaltone” nel nome di una nuova “maggioranza Orsola” (copyright Romano Prodi) con la cacciata della Lega e il rientro del Pd – sempre sconfitto al voto – sotto la regia attiva del Quirinale. (Nel nuovo euro-parlamento è entrata anche Carola Rackete, che nel 2019 iniziò con mezzi militari l’assalto europeo alla Lega. La “capitana” tedesca siede nel gruppo dell’estrema sinistra a fianco di Mimmo Lucano – il “sindaco delle Ong” – e di Ilaria Salis, la “pasionaria” anti-Orban).
Lo schema 2019 sembra dunque riproporsi oggi più che a livello potenziale, anche se con un importante mutamento nel paesaggio politico nazionale: la scomparsa di Silvio Berlusconi e il passaggio di Forza Italia ai figli Marina e Piersilvio nello stesso asse ereditario comprendente il controllo di Mediaset e di Mondadori, la partecipazione in Mediolanum e innumerevoli altre attività di un patrimonio multi-miliardario. E in un partito-azienda sempre gestito dal Cavaliere con concezione proprietaria, è quasi impossibile non far risalire oggi agli eredi Berlusconi la decisione ultima di spendere a favore di “Ursula” e contro “Giorgia” otto preziosi seggi a Strasburgo (un “asset” di cui probabilmente non dispone alcun tycoon od oligarca nell’Ue). Sono dunque loro, in ultima analisi, i responsabili di un colpo pesante inferto personalmente a una Premier vincitrice al voto; dell’isolamento del Paese in una fase geopolitico-economica difficilissima e di un “euro-ribaltino” incuneato nella maggioranza di governo in Italia.
Marina e Piersilvio non hanno comunque agito nell’ombra. Nelle ultime settimane entrambi hanno assunto una visibilità politico-mediatica crescente, sempre con accenti critici verso il Governo e la maggioranza. L’ultimo ha visto il vicepresidente esecutivo di Mediaset attaccare frontalmente la prospettiva di quella che è apparsa a sua volta una prima iniziativa frontale contro l’ultra-trentennale duopolio televisivo fra Rai e Mediaset: l’ipotesi – avanzata dalla Lega nella Legge della legge di bilancio 2025 – di aumentare l’affollamento pubblicitario della Rai al fine di tagliare il canone.
Piersilvio – a ruota di Marina – non ha mostrato alcun timore nel riproporre in pieno il conflitto d’interesse che ha sempre caratterizzato il padre. Il capo di Mediaset (che si accinge a governare con pieni poteri con l’uscita di scena di Fedele Confalonieri) ha richiamato all’ordine Forza Italia, accusandola di essere “poco moderata”, cioè troppo appiattita sulla Premier. Questo giusto alla vigilia del voto di Strasburgo (e con la grottesca attenzione di un giornale come Repubblica, per cui l’ex “Cavaliere Nero”, nemico da abbattere nonché amico di Vladimir Putin, avrebbe lasciato in eredità una forza occidentale di resistenza democratica eccetera).
Che la riforma della legge Mammì-Gentiloni-Gasparri-eccetera sia fra le più importanti attese dalla Terza Repubblica in incubazione lo ha prescritto l’Europa: nel 2020, con toni definitivi, la Corte europea di giustizia ha stabilito che l’ordinamento italiano dei media “costituisce un ostacolo vietato alla libertà di stabilimento” e non sarebbe “idoneo a conseguire l’obiettivo della tutela del pluralismo dell’informazione”. Ma è appunto su questo sfondo che – sempre alla vigilia del voto a von der Leyen – un centro studi promosso dall’Ue ha rilasciato un rapporto allarmatissimo sulla libertà d’informazione in Italia: puntando il dito sulla presunta “occupazione della Rai” da parte della nuova maggioranza di centrodestra. Non una parola sul fatto che – dal 1990 – l’altra metà del cielo televisivo sulla penisola è occupato da una sola famiglia, a sua volta proprietaria di squadre parlamentari a Roma e Strasburgo. Con il loro partito in maggioranza a Roma (oggi ma tendenzialmente anche all’indomani di un ennesimo ribaltone) e nondimeno “dalla parte giusta” anche fra Strasburgo e Bruxelles. Con “Ursula” e contro l’Italia. Nel silenzio (assenso?) del Quirinale.
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