Quando Frans Timmermans, ex vicepresidente della Commissione europea e “padre” del Green Deal, aveva deciso di abbandonare Bruxelles e correre nel suo Paese, l’Olanda, per il premierato i più caustici avevano commentato che il guru dell’ambientalismo, stufo di scervellarsi su come salvare il pianeta, avesse razionalmente derubricato la sua sfida al mero salvataggio della sua poltrona. Peraltro, senza riuscirvi, visto che i suoi concittadini hanno preferito l’estrema destra e che dopo lunghe trattative il nuovo governo è appunto sostenuto dai rivali di Timmermans e guidato dall’ex capo dei servizi segreti Dick Schoof.
Ma perché parlarne? Perché l’uscita di scena di Timmermans faceva presagire che l’estremismo ideologista del suo Green Deal potesse essere superato o da una vittoria dei conservatori anche in sede europea o, per lo meno, da una nuova “maggioranza Ursula” indipendente dai Verdi. Macché, ciò non è accaduto. Nei fatti, la nuova Commissione è stata appoggiata da Socialisti, Liberali, Popolari e Verdi. Dunque, il peso di quest’ultima componente resterà molto incisivo.
Non c’è da stupirsi. Le destre che hanno guadagnato terreno in quasi tutti i Paesi europei nell’ultimo triennio – In Italia come in Francia, Germania, appunto Olanda e Spagna, per non parlare dell’Ungheria – non hanno però saputo proporre ai rispettivi elettorati una visione dell’Europa e della politica comunitaria che fosse trasversale e aggregante.
D’accordo a dire no allo status quo, ma per cambiarlo in che modo, nessuno ha saputo dirlo. Men che meno la von der Leyen, che anzi – e con stupefacente faccia tosta – ha fatto le viste di meritare non solo una conferma come “personaggio-cuscinetto” sufficientemente incolore per mettere d’accordo tutti a non cercare qualcuno più dotato ma anche come leader di una coalizione pensante. Macché pensante.
Nè sulla difesa comune, né sulla nuova geopolitica mondiale, né sul nuovo Patto di stabilità e i limiti con cui è nato, la von der Leyen ha detto qualcosa di misurabilmente nuovo. E le destre, tagliate fuori dagli accordi di compromesso, non hanno a loro volta saputo concertare neanche la protesta, a cominciare da Fratelli d’Italia che ha votato contro salvo dire con la sua leader che però la stima per la confermata Presidente e l’eventuale supporto su alcune partite strategiche non mancherà.
Di fatto l'”ordine continua a regnare” se non a Varsavia a Bruxelles. Impermeabilmente rispetto ai fremiti delle destre nazionali: appunto, nazionali e nazionalisti, non europeiste. E dunque nella debolezza della politica di compromessa uscita dalle urne di giugno, la Commissione con i suoi dicasteri si conferma sempre più terreno di manovra autonoma dei mandarini burocratici di Bruxelles, un’invisibile casta in grado di fare il bello e il cattivo tempo. Non è certo da un’Europa così indecisa a tutto e disunita che c’è da attendersi quel colpo di reni della stanca democrazia occidentale che da tante parti ci si aspettava.
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