Dal carcere di Opera raccontiamo oggi una storia che è insieme molto triste e bellissima. Ma cominciamo dalla fine, che è la dimensione triste -e forse disturbante- della vicenda. È morto Giuseppe. Detenuto nel reparto di Alta Sicurezza da decenni: affetto da diverse patologie era stato colpito dal morbo di Parkinson che lo aveva costretto sulla sedia a rotelle e alla totale infermità. Giuseppe “viveva” con fatica, assistito dai compagni, a cominciare dal suo cancellino, che dovevano provvedere a tutto per lui, ormai impossibilitato a far nulla. La nostra storia potrebbe soffermarsi sulla domanda che sempre si affaccia in questi casi: ammesso che la lunghissima detenzione avesse avuto un senso, ammesso che il peso di quei reati andasse “espiato” con an ni e anni di prigione, ammesso che la detenzione così com’è fosse adeguata a un Paese civile, ammesso tutto, che cosa ci faceva ancora Giuseppe in prigione? Vecchio e malatissimo quale pericolosità sociale poteva avere? Quale allarme poteva destare una sua eventuale scarcerazione per potersi curare bene? Sono domande retoriche, senza ponderata risposta: sappiamo che è inutile porsele. Giuseppe, tentando di accedere al “bagno” della cella, che solo l’ipocrisia impone di chiamare “stanza di pernottamento”, è malamente caduto: ha sbattuto la testa su uno dei mille spigoli di ferro che caratterizzano la progettazione d’avanguardia del luogo, trauma cranico e via. Un altro morto. Fa pochissima notizia in un anno come questo che conta già un numero altissimo di suicidi (pure tra il personale di Polizia Penitenziaria) con sovraffollamento crescente, carenza di organici, mancanza di risorse. Sono i membri dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino”, che Giuseppe ha frequentato fin che ha potuto, lo hanno ricordato durante una riunione a Opera.
Ma la vicenda di Giuseppe non è in questo tragico finale. Tutt’altro: la storia che raccontiamo è luminosa. Da giovane fu coinvolto in vicende di mafia che lo hanno portato a delitti gravi. Tra questi un conflitto a fuoco con la cosca rivale durante il quale ha ucciso il fratello di un altro “picciotto”: tutti erano là separati da rivalità feroci, da volontà di potere, da vendette incrociate. Incarcerati giovani. Giuseppe e Antonio, l’uomo il cui fratello è stato ucciso, hanno trascorso molto tempo reclusi, ignorandosi, covando rancori e pensieri foschi. Ma gli anni sono passati ed entrambi hanno compiuto un percorso di rivisitazione del proprio vissuto, di allontanamento da quelle scelte, di riflessione su quell’orrore. Dopo tanto tempo, usciti dal regime duro del 41 bis, Giuseppe e Antonio si sono incontrati nel carcere di Voghera. E si sono riconosciuti. Non nel senso anagrafico. È accaduto qualcosa: separato da un fiume d’odio hanno scoperto con uno sguardo che quel fiume era secco, che non c’era più. “Antonio sei tu?” dice Giuseppe già malato e infermo. Antonio non risponde ma lo abbraccia. Entrambi sono di pochissime parole e non ne servono molte, ma ciò che conta è che hanno saputo riconciliarsi, gettar via il carico di dolore pesantissimo che gravava da tempo su entrambi e avviare la rinascita. Trasferiti a Opera sono diventati ”amici”, parola impegnativa, coinvolgente, globale. Antonio ha aiutato Giuseppe che declinava sempre più, Giuseppe è stato importante per dare un senso al tempo infinito della carcerazione di Antonio. Un miracolo, hanno detto più di una volta. In quella commemorazione Antonio ha ricordato l’amico con commozione evidente: niente era dimenticato o cancellato, ma tutto era perdonato.
Perdono. Parola così poco usuale in carcere, così lontana dal linguaggio ordinario, esclusa dal Diritto, spesso addirittura ridicolizzata come roba da baciapile o da donnette. Invece tutti noi che eravamo lì abbiamo visto che è vera, che è possibile, che non ha confini. Antonio aveva tenuto fra le braccia suo fratello che spirava, quando Giuseppe lo aveva ucciso. Ora Antonio è stato capace di dire: “Mentre cercavo di rialzare Giuseppe e capivo che non c’era più niente da fare, è stato come tornare indietro. E mi sono reso conto che stavo di nuovo abbracciando mio fratello che moriva, mio fratello Giuseppe”.
C’erano molti da ascoltare, molte persone dure, con passati violenti, molti che non hanno il perdono tra le modalità di relazione usuali. Ma in più d’uno si vedeva che il “miracolo” ha attecchito che la storia di Antonio e Giuseppe parla e lo fa con voce forte e chiara, che non è certo finita anche ora che Giuseppe ha cambiato modalità di farne parte. E che lascia un segno forte, facendo bene, molto bene a tutti.
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