L’ultima notizia riguardante la sempre più complessa vicenda dell’ex Ilva e il futuro in primo luogo del suo grande impianto di Taranto riguarda l’accordo raggiunto fra azienda e sindacati nelle scorse ore in virtù del quale saranno 4.050 e non più 5.200 gli addetti da porsi in cassa integrazione, dei quali 3.500 a Taranto, 270 a Genova e 175 a Novi Ligure. I cassintegrati godranno di integrazioni sul salario, mentre il loro numero dovrebbe azzerarsi entro la primavera del 2026 quando torneranno in esercizio i tre altiforni del sito ionico, ovvero gli altiforni 1, 2 e 4, mentre oggi è in esercizio solo quest’ultimo che assicura poco più di un milione di tonnellate all’anno.
Gli altri due altiforni dovrebbero rientrare in produzione fruendo dei circa 700 milioni di finanziamenti posti a disposizione della gestione commissariale, costituiti da 300 milioni provenienti dal patrimonio di Ilva in Amministrazione straordinaria che possiede il compendio impiantistico, e i 350 milioni che sono stati autorizzati dall’Ue come prestito rimborsabile a un tasso di poco superiore all’11%, ma il Governo deve ora redigere il decreto di concessione dei 350 milioni.
Nel frattempo sono ripartite le manutenzioni più urgenti nella fabbrica tarantina con interventi promossi dalla gestione commissariale – dopo la sostituzione della Morselli che rappresentava il vecchio gestore di maggioranza ovvero Arcelor Mittal – che ha varato una strategia di mantenimento del ciclo produttivo, rafforzando sotto il profilo tecnologico l’Afo 4, l’unico in esercizio e come tale destinato ad alimentare uno zoccolo minimo di output, attestatosi a oggi alla soglia di 1 milione di tonnellate.
Queste le ultime notizie che si innestano in uno scenario che prevederebbe (ma il condizionale è d’obbligo) entro i prossimi giorni la pubblicazione del bando di vendita degli impianti, e la possibilità che siano almeno sei i possibili partecipanti a una gara per l’aggiudicazione di tutto il gruppo. Sinora hanno visitato il Siderurgico di Taranto i rappresentanti dei gruppi indiani Steel Mont e Vulcan green Steel, dell’ucraina Metinvest, e dei canadesi di Stelco. Gli italiani Marcegaglia e Arvedi hanno annunciato a loro volta la loro volontà di partecipare al bando, ma non è dato sapere al momento se i gruppi appena citati intendano presentarsi in una o più cordate o meno.
Allora, almeno apparentemente tutto sembrerebbe procedere lungo un sentiero promettente, grazie soprattutto all’impegno dei Ministri Urso, Fitto e Calderone, alla continua mobilitazione dei Sindacati, e alla pressione delle Istituzioni locali, da Taranto a Genova; ma, in realtà, non sono pochi i nodi sono da sciogliere, i primi dei quali sono stati richiamati dal Presidente di Federacciai il prof. Gozzi nelle scorse settimane, quando si è chiesto se resteranno in vigore anche dopo il 2029 le quote gratuite di emissione di CO2 – il che non renderebbe più conveniente rifare l’Afo 5 a Taranto del costo di 650 milioni – e se la quantità di idrogeno da impiegare nell’area ionica per la produzione del preridotto di ferro saranno quelle previste dalla vecchia Commissione europea che – ha evidenziato Gozzi – ha chiesto l’impiego di idrogeno in quantità che al momento non si producono in tutta Europa.
Ma il problema del preridotto rimanda a sua volta all’introduzione di forni elettrici nel sito tarantino, ove se ne prevederebbero due affiancati da un altoforno. Ma a oggi – secondo quanto si legge sulla stampa – i commissari avrebbero previsto di riportare la produzione di Taranto a sei milioni di tonnellate entro il 2026, ma con tre altiforni. Ma allora, se così fosse, nel bando di gara cosa sarebbe previsto? Che si debbano riportare in piena attività solo i tre altiforni prima ricordati, opportunamente “revampati” e cioè ammodernati per quanto possibile, rinunciandosi così ad avviare la piena decarbonizzazione, o che invece l’acquirente deve impegnarsi a installare i due forni elettrici, utilizzando il preridotto da prodursi a sua volta nel connesso impianto della società pubblica DRI, costituita ad hoc che fruirebbe del contributo statale previsto? E con quali tecnologie poi lo produrrebbe, visto che l’esito di un primo bando che ne aveva assegnato la realizzazione con quelle previste dalla Paul Wurth era stato contestato con successo al Tar di Lecce dalla Danieli, interessata a realizzarlo con le proprie tecnologie?
Ma se, come teme il prof. Gozzi, la nuova Commissione europea dovesse confermare gli orientamenti della precedente circa la non gratuità delle quote di emissione di CO2 dopo il 2029, e impiego di idrogeno nelle quantità imposte ignorandosene di fatto i volumi prodotti oggi in tutta Europa, si potrebbe allora procedere all’installazione dei forni elettrici, qualunque ne sia la tecnologia, il cui output avrebbe costi assolutamente proibitivi?
Inoltre, i Sindacati – che comprensibilmente dal loro punto di vista – chiedono garanzie occupazionali per gli addetti attuali di tutti i siti del Gruppo, senza dimenticare che ve ne altri 1.600 in Cigs dall’altra gestione commissariale – sanno perfettamente che l’introduzione dei forni elettrici taglierebbe l’occupazione in misura rilevante e che perciò stanno di fatto rinunciando a chiedere la piena decarbonizzazione dello stabilimento tarantino, sulla quale anche il Governo si è impegnato, sulla fortissima spinta delle istituzioni locali? E inoltre che ne sarebbe del grande porto del capoluogo ionico, se esso perdesse il traffico del minerale di ferro oggi necessario alla produzione da altoforno?
Insomma, nel bando di vendita che starebbe per essere pubblicato cosa si prevederebbe realmente per i potenziali acquirenti? Il prioritario ripristino dei tre altiforni e/o anche l’obbligo di installare due forni elettrici, sia pure in un arco temporale non breve? E se, come sembrerebbe trapelare da fonti vicine al dossier, si dovesse prevedere nel bando anche una vendita a spezzatino del Gruppo – che potrebbe separare quella del megaimpianto ionico dalle fabbriche “a valle” di Genova, Novi Ligure e dalle altre minori – parti sociali e Istituzioni locali cosa direbbero?
In questo scenario – di cui è del tutto evidente l’estrema complessità – cosa accadrebbe delle aziende dell’indotto che solo a Taranto occupano circa 6mila addetti alle quali è stato proposto dai Commissari di accettare il pagamento al 70% dei loro circa 120 milioni di crediti, vantati dalla precedente gestione di Acciaierie d’Italia, e maturati prima che la società venisse posta in Amministrazione straordinaria? Pagherebbe la Sace, si afferma, cui poi i Commissari verserebbero il corrispettivo. Sembra che la maggior parte delle aziende – che negli ultimi mesi hanno alimentato una mobilitazione estremamente dura, da veri e propri imprenditori “disperati”, per salvare i loro crediti e con essi in molti casi le loro aziende – siano disposte ad accettare la proposta commissariale.
Mentre sta accadendo o si accinge ad accadere tutto questo, incombe la recente sentenza della Corte dei diritti dell’Uomo, adita da tempo da un gruppo di cittadini di Taranto, secondo la quale se lo stabilimento continuasse a inquinare andrebbe chiuso, almeno sin quando non venissero rimosse la cause che generano inquinamento e danni alla salute degli abitanti dei quartieri più vicini al Siderurgico. Oggi, dopo i massicci investimenti compiuti negli ultimi anni sugli impianti – come ad esempio la copertura dei parchi minerali – la situazione è decisamente migliorata in città, ma permangono picchi di benzene registrati in alcune centraline che, pur al di sotto dei limiti di legge, alimentano la preoccupazione di molti residenti nei pressi della grande fabbrica.
Insomma, i nodi da sciogliere sono oltremodo numerosi e di assoluta e quasi insormontabile complessità, ma dovranno essere affrontati con determinazione e pazienza perché stiamo parlando per quella di Taranto – non ci stancheremo di ripeterlo – della più grande fabbrica manifatturiera d’Italia che, con i suoi attuali 8.068 occupati diretti conserva tuttora questo primato.
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