Sul Sussidiario il “ballon d’essai” sulla privatizzazione alla Rai era atteso da tempo: soprattutto dopo il cambio di passo impresso in senso anti-Premier da Marina e Piersilvio Berlusconi a Forza Italia, la metà politica del Partito-Azienda costruito dal Cavaliere. Nondimeno, un caso molto mediatico sulla libertà d’informazione in Italia è stato costruito attorno alla Rai, l’altro Partito-Azienda, l’altra metà del duopolio tv in Italia. È stato originato dall’Ue in una fase di alta tensione fra Bruxelles e Roma riguardo i rinnovi delle grandi cariche; ed è stato avallato in misura visibile dal Quirinale “dem” di Sergio Mattarella.
Ad alzare ulteriormente la temperatura sono giunte infine le dimissioni (“a orologeria”?) della presidente Rai, Marinella Soldi: in procinto di passare alla Bbc, in odore di “fuoriuscita” verso la proverbiale “terra promessa” del giornalismo. È sembrato comunque trattarsi di una catena di detonazioni preliminari di un ordigno caricato da tempo, proprio in vista dell’avvio di una “fase due” della legislatura, a valle della verifica elettorale dell’euro-voto.
Vi sono pochi dubbi che Giorgia Meloni e in misura diversa anche la Lega di Matteo Salvini continuino a vivere il duopolio televisivo in termini problematici. La Rai – storicamente dominata dalle forze politiche di sinistra, in termini “non scritti” dall’inizio della Seconda Repubblica – è una mina sempre carica per il centrodestra: cui viene contestato ogni episodio di “spoil system” considerato invece normale per il centrosinistra; oppure episodi di presunta violazione della libertà d’informazione su cui l’Ue o il Quirinale (dal 2006 presidiato dal Pd) non hanno mai aperto bocca a maggioranze e gestioni Rai invertite.
Il vessillo di una Rai “libera” era così diventato “Chetempochefa”: esemplare invece di tanti contratti d’oro (finanziati col canone) erogati dalla tv di Stato a trasmissioni e conduttori programmaticamente di parte. Simbolica la gestione politico-mediatica dell’uscita di di Fabio Fazio verso Discovery: narrata come espulsione politica, nei fatti l’opposto. Un personaggio cui la Rai ha consentito di accumulare valori finanziari e d’immagine artificialmente generati dal duopolio, si è infine “privatizzato”: a vantaggio proprio e di un player internazionale che preme dal mercato sul duopolio.
Sull’altro fronte, Mediaset orfana del Cavaliere, si è ritrovata a serio rischio benché Forza Italia sia “junior partner” di una maggioranza dominata però da Fratelli d’Italia (la situazione ideale per Silvio Berlusconi è sempre stata l’eterno “patto del Nazareno”, nei fatti funzionante già all’epoca del Prodi-1 e poi ininterrottamente dal 2011). E poi proprio l’Ue ha dichiarato fuorilegge la legge Mammì/Gentiloni/Gasparri/eccetera: e non è stato certo casuale che Forza Italia abbia “tradito” la maggioranza Meloni proprio votando la fiducia alla popolare Ursula von der Leyen, confermata alla guida della Commissione europea.
Già dalla stagione 2023/2024 – all’indomani della scomparsa di Silvio Berlusconi – i palinsesti Mediaset sono stati in ogni caso oggetto di un’inopinata sterzata a sinistra: la chiamata di Bianca Berlinguer è stata esemplare del tentativo di “narrare” le reti Fininvest come una sorta di “Rai di scorta”: di “servizio pubblico d’emergenza” laddove la tv di Stato sarebbe stata “occupata” e “soffocata” da un Governo “post-fascista”. Quindi: le sei reti “Raiset” come “presidio democratico unico” di un’Italia nella quale la libertà di stampa è minacciata.
Su questo sfondo non può essere dimenticato neppure il controverso “leak” che su “Striscia la notizia” ha riguardato Andrea Giambruno, dipendente di Mediaset e compagno della Premier: spinta a troncare improvvisamente la lunga relazione col padre di sua figlia. L’episodio è coinciso non a caso con un primo tentativo della maggioranza di toccare il regime tv esistente: quello di ridurre il canone Rai nella Legge di bilancio 2024.
Ora c’è l’ipotesi di modifica degli affollamenti pubblicitari in senso liberalizzatorio, con l’aggiunta del ballon d’essai sulla privatizzazione della tv di Stato. Non è d’altronde l’Ue stessa a lanciare allarmi e sollecitare cambiamenti nel sistema dell’informazione italiano? Un sistema pietrificato da più di un trentennio sull’oligopolio collusivo fra lo Stato e la famiglia Berlusconi, in strutturale conflitto d’interesse con la politica istituzionale.
Non certo da ultimo, sono tornate di gran momento politico-finanziario le privatizzazioni “tout court”: allorché l’Italia è tornata – assieme ad altri cinque Paesi – in procedura d’infrazione per alto deficit presso la Ue. Il Mef (che ha recentemente collocato il 2,8% di Eni) sta predisponendo una nuova lista di vendita, comprendente la quota residua in Mps e una seconda tranche di Poste. Sui binari di partenza sarebbe anche l’apertura del capitale delle Fs. Per quale ragione la Rai non dovrebbe essere oggetto di riflessioni privatizzatorie?
Il collocamento di una prima quota presenta sulla carta più opportunità che rischi per il éremier. Oltre ad assicurare un incasso per l’Erario, sarebbe inequivocabile il segnale di “abbassamento delle mani” del Governo – della politica – dalla Tv di Stato. Senza contare la – possibile, prevedibile – chiamata di partner strategici internazionali: Meloni ha allacciato rapporti al livello di Elon Musk e ha appena chiuso l’operazione rete Tim con l’intervento di un colosso come Kkr. Chi potrebbe contestare a palazzo Chigi mosse simili: la leader “tri-passaporto” del Pd, Elly Schlein? Romano Prodi, ex Presidente della Commissione Ue e gran privatizzatore “in stile Britannia” dell’Italia di fine ventesimo secolo?
La legge Mammì portò la data del 6 agosto: il classico cuore dell’estate, ideale per tutti i blitz e i terremoti politici. Quella volta la forzatura del Governo Andreotti (appoggiato dal Psi di Bettino Craxi, storico sponsor di Berlusconi) portò alle polemiche dimissioni di tutti i ministri della sinistra Dc (storica “anima” della Rai). Fra di essi vi era il ministro della Pubblica istruzione, Sergio Mattarella.
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