Le Olimpiadi e quella Gen Z con cui non abbiamo ancora fatto i conti

Oggi, quando ci si vuole rivolgere ai giovani adulti, si deve fare i conti con la Generazione Z, con il loro modo di sentire e di percepire la realtà

Le Olimpiadi di questi giorni portano alla ribalta una serie di volti, più o meno noti, la cui appartenenza generazionale è alla cosiddetta Gen Z, i nati tra il 1997 e il 2009. Per anni questa generazione è stata al centro di dibattiti e di riflessioni che hanno coinvolto il mondo della scuola e dell’educazione, ma adesso le cose stanno cambiando. La Gen Z si affaccia prepotentemente allo sport, alla musica, alla moda. E, inevitabilmente, alla politica.



Sono cresciuti, sono diventati grandi. E stanno via via prendendo il loro posto nel mondo. Oggi, quando ci si vuole rivolgere ai giovani adulti, si deve fare i conti con loro, con il loro modo di sentire e di percepire la realtà, con le loro paure, i loro desideri e i loro sogni. Se la Chiesa desidera ancora interagire col mondo contemporaneo, non è con i Boomers che deve interfacciarsi – ormai senatori della storia, testimoni di un benessere economico e morale lontano nel tempo – e neanche con la Generazione X, che dilaga su social come Facebook e che è l’ultima epigona di una dialettica ideologica di cui si è persa anche la memoria. Ci sono certamente i Millennials, la generazione Instagram, che il corso degli eventi ha posto quasi come uno spartiacque tra il mondo uscito dalle due guerre e il mondo del nuovo secolo. Ma ci sono soprattutto gli appartenenti alla Gen Z.



Descriverli è compito da sociologi, ma farne un ritratto senza pretese risulta ugualmente importante per capire quanto queste ragazze e questi ragazzi vivano più proiettati al 2050 che al 1950. Il ritratto è possibile attorno a tre espressioni, che non vogliono certamente essere esaustive.

La prima espressione è “futuro”. I nuovi adulti sono convinti di avere davanti a sé un futuro nefasto, segnato dall’emergenza climatica, dal crollo del capitalismo e dal proliferare dei conflitti fra le nazioni. Rimproverano alle generazioni precedenti di essere stati gli artefici di un tale disastro e si pongono in politica in modo radicale, con un nuovo furore ideologico che non passa dalla faglia destra/sinistra, ma da quella che separa chi questo futuro lo vuole addomesticare e chi – invece – punterebbe a un più comodo ritorno al passato.



La seconda parola identificativa è “mobilità”: la Gen Z è convinta che debba essere affermata una mobilità degli orientamenti sessuali, dei generi, ma anche delle istituzioni deputate a garantire l’ordine sociale, come il matrimonio, la scuola e la famiglia. Il divenire è, per loro, la legge suprema dell’esistenza e niente può essere dato per sempre. Sono mediamente persone che hanno recepito dalla società dei consumi il fatto che la realtà sia disponibile e che la volontà del singolo, quando si parla di amore, nascita e morte, sia irriducibile. Ne consegue la volontà di modellare il quadro normativo in modo consequenziale e di liberarsi da tutte le zavorre di un passato che sentono non appartenergli più.

Infine, la terza espressione è “fragilità”. Per i giovani fratellini e sorelline di Sinner, essere fragili non è qualcosa da nascondere. Si tratti di droga, di alcool, di sesso, di malattie mentali o di crisi di panico, tutto può essere vissuto alla luce del sole. Anche il rapporto a volte complicato con il proprio corpo. Chiedono a tutti rispetto, lucidità, misura e mal sopportano un uso sbagliato della lingua italiana su questi temi per loro essenziali.

Sono dunque questi, a grandi linee, i protagonisti del futuro che comincia alle Olimpiadi di questi giorni. Non chiedete a questi ragazzi e a queste ragazze di appassionarsi a rappresentazioni dell’Ultima Cena, e non chiedete loro neppure di mettere in discussione l’esistenza del patriarcato. A loro non interessa dialettizzare sull’esame di maturità o affrontare l’immigrazione come problema. Si scaldano per i bambini di Gaza, si accalorano per le politiche ambientali, difendono un femminismo che però non è nemmeno cugino del femminismo cui tutti siamo stati abituati. La Chiesa Cattolica, dove ancora resiste in Occidente, ha di fronte loro. Con loro si deve confrontare. Per questo è fondamentale capire, in questo frangente di grandi cambiamenti, che cosa sia essenziale e che cosa no. In che cosa consista l’annuncio cristiano e come esso vada raccontato a questo nuovo mondo che avanza. Perché certamente non saranno loro a estinguersi. Ma potrebbero essere loro a cambiare l’Occidente. Una volta per tutte.

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