Il 18 ottobre scorso è mancato a Milano Giovanni Chiaramonte (1948-2023), grande amico di Luigi Ghirri, con lui protagonista di quel Viaggio in Italia del 1984. Su due versanti culturali, e con due personalità nettamente diverse, hanno declinato le medesime intuizioni.
A Chiaramonte il Politecnico di Milano ha dedicato di recente un “Omaggio”, un pomeriggio di studi molto ricco, accompagnato dalla mostra Ex-Libris Km.0 con una selezione dei suoi numerosi libri e pubblicazioni: è stato infatti anche un instancabile promotore e curatore di volumi originali e di grande qualità. L’incontro era organizzato dal prof. Piero Pozzi, docente di fotografia alla Scuola di Design, in collaborazione con l’architetto Federico Brunetti.
“Viaggio in Italia – dice Pozzi – nasce con la volontà di riscrivere un paese lontano da quella che era l’iconografia ereditata dall’Ottocento, e poi da una visione un po’ romantica e nostalgica. Chiaramonte aveva una coscienza lucidissima del cambio di paradigma in atto: sapeva che la fotografia fino a tutti gli anni 70, da Pepi Merisio a Fulvio Roiter a Franco Fontana, aveva raccontato l’Italia in un certo modo, e che si doveva cambiare registro. È il fotografo più colto che io abbia mai incontrato, e aveva individuato una serie di radici di questo nuovo percorso, che andavano da Walker Evans e l’esperienza della Farm Security Administration negli Stati Uniti degli anni 30, a fotografi americani più recenti come Lee Friedlander e Joel Meyerowitz. Nonostante la differenza di estrazione culturale ed esperienziale, tra lui e Ghirri c’era un grande accordo. Luigi aveva ad esempio realizzato la sequenza Italia ai lati, dove nel palindromo, la parola ‘Italia’ letta al contrario, già dichiarava di voler mostrare un altro paese, quasi opposto al primo. E Giovanni, nel 1982, aveva realizzato uno scatto nel compartimento di un vagone delle Ferrovie dello Stato in cui si vedeva una di quelle stampe classiche che raccontavano l’Italia come il ‘Bel paese’, Piazza San Marco, la Torre di Pisa, il Colosseo, ma se il passeggero spostava lo sguardo, fuori dal finestrino del treno poteva vedere tutt’altra Italia, quella delle periferie tutte simili, come a Sesto San Giovanni, Torino, o Roma”.
In quegli anni i fotografi non amavano affatto essere definiti “artisti”, con il rischio di essere percepiti come creativi “di serie B”; quel gruppo ha saputo rimanere fedele allo specifico fotografico e, al tempo stesso, ha realizzato un’operazione “artistica” in un senso nuovo, esprimendo qualcosa di radicale attraverso mezzi iconografici inediti, come la pellicola a colori: “Ognuno di loro – continua Pozzi – aveva una forte impronta personale, come se fossero dei musicisti. Uno dei più originali è per esempio Mario Cresci, che ha anche una componente grafica creativa fortissima. Ma Viaggio in Italia in fondo, nonostante fossero tutti dei solisti spesso di gran talento, è stato un primo tentativo di ‘prova d’orchestra’: in questo contesto il lavoro difficilissimo di Ghirri e di Chiaramonte è stato quello di tentare di dare una direzione collettiva a queste individualità. Non c’era un vero direttore sul podio a dettare la linea, per quanto forte fosse l’influenza di Ghirri; però c’è stata, sì, un’orchestrazione, Ghirri e Chiaramonte, anche grazie alla loro azione editoriale, hanno creato veramente un piccolo movimento”.
“Chiaramonte – continua Brunetti – è stato non solo un viaggiatore, un esploratore di luoghi ma un vero pellegrino della visione. Il suo percorso di ricerca e la sua inquietudine non erano originati da una insoddisfazione dell’esistente, ma da una insaziabile ricerca dell’essenziale nel reale. In diversi modi la sua generazione ha attraversato quella che è chiamata appunto l”estetica dello spaesamento’, in cui altri autori si sono ritrovati: lo spaesamento è un percorso estetico e analitico molto profondo che ha percezioni, fondamenti filosofici e motivazioni sperimentate nelle avanguardie artistiche. Ma questa non era la dinamica di Chiaramonte. L’estetica del viaggio fa parte della sua ricerca esistenziale personale. È bene ricordare come nell’800, nella storia americana dell’esplorazione del West procedettero parallelamente la costruzione delle reti ferroviarie e le campagne fotografiche in territori che fino ad allora non erano mai stati rappresentati, se non dall’iconografia simbolica dei nativi. La storia della fotografia in America è stata, di fatto, una storia di esplorazione. Chiaramonte ricordava spesso i paesaggi di Ansel Adams, laddove nei cimiteri e nei notturni al chiaro di Luna riaffiorava la radice etimologica indoeuropea della parola ‘paesaggio’, che indicava originariamente il luogo in cui venivano seppelliti gli antenati e veniva piantato un albero: l’abitare, dunque, identifica uno spazio là dove giacciono le memorie e si inizia un nuovo coltivare”. Un’impostazione che faceva fuori tutta una certa narrazione estetizzante e una certa mistica del paesaggio come improbabile luogo naturale incontaminato.
Chiaramonte aveva l’attrezzatura, lo stile e il passo del fotografo americano, ma anche l’attitudine esistenziale del mistico ortodosso orientale: l’estetica bizantina e i film di Andrej Tarkovskij erano sempre con lui, facendone un personaggio di frontiera ma anche in parte inattuale: “Era mosso da una ricerca dell’origine che aveva connaturato il desiderio di un’apertura totale”, ricorda Brunetti. “La cosa più lontana da Giovanni sarebbe stata porsi come antagonista di qualsiasi genere: viceversa era un ricercatore capace di accogliere la sensibilità di tradizioni visive differenti, dalla mistica ortodossa dell’icona alla cultura contemplativa giapponese, che arricchivano la sua dimensione interiore e la sua capacità di sguardo. Il cinema, da Tarkovskij fino a Wim Wenders, è stato fondamentale nella sua formazione come nei suoi successivi incontri”.
“In una delle sue ultime conferenze – conclude Pozzi – Chiaramonte affrontava la figura dell’Angelus Novus di Paul Klee, attraverso il testo di Walter Benjamin, dove c’è questa idea di un angelo che guarda il passato ma è attratto, proiettato nel futuro. In una dinamica un po’ inquieta, nella percezione di essere in un luogo sempre precario, alla ricerca di un permanere della novità. Una ricerca che raggiunge un’intensità incredibile quando lui, non potendo più spostarsi dalla sua casa, perché è malato, scatta le ultime fotografie trovando nei dettagli della propria stanza tutti gli indizi dell’universo, che ci dicono che un uomo, in qualsiasi condizione si trovi, non viaggia, ma è in viaggio”.
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