Oddio, nel 2080 saremo soltanto 46 milioni! Questo il grido allarmato di tutti i media dopo aver letto l’ultimo rapporto Istat in cui l’Istituto racconta i cambiamenti che stanno interessando la struttura della popolazione del nostro Paese e fornisce alcune previsioni su quanti saranno gli italiani nei prossimi (anche molti) anni.
Chi scrive non ha le competenze per dire se essere soltanto 46 milioni nel 2080 è un bene o un male, però avendo letto il rapporto Istat ed essendo un curioso ed appassionato osservatore del servizio sanitario, non è certo l’informazione che ci stiamo avviando a diventare 46 milioni (eravamo 60,3 milioni nel 2014 e già poco meno di 59 milioni nel 2023) la notizia che ha attratto la mia attenzione: sono ben più rilevanti le informazioni che Istat propone a riguardo di come stanno cambiando la struttura per età e la composizione della popolazione più che il numero assoluto di abitanti.
Proviamo allora ad esplorare ciò che dice il rapporto con l’intenzione di comprendere quali sono le possibili conseguenze che i cambiamenti demografici in corso o previsti possono avere sui servizi e le prestazioni sanitarie e sociosanitarie che i cittadini italiani chiederanno al servizio sanitario che stiamo lasciando in eredità ai nostri figli e, più avanti, ai nostri nipoti.
Il rapporto, del 24 luglio 2024 (“Previsioni della popolazione residente e delle famiglie. Base 1/1/2023”) ha molte ricadute su diversi settori (scuola, lavoro, previdenza, famiglia, …) e mi auguro che gli esperti di questi campi vogliano cogliere analogamente le provocazioni che qui raccogliamo per il solo comparto della salute.
In generale, dice l’Istat, la popolazione nei prossimi anni diminuirà, anche se il valore numerico è molto differente nei tre scenari di stima proposti (minimo, mediano, massimo), e diminuirà soprattutto nel Mezzogiorno, il che richiederà necessariamente un ripensamento complessivo dell’attuale struttura territoriale di erogazione dei servizi nelle Regioni per adattarsi al cambiamento della domanda sanitaria e sociosanitaria.
La forte riduzione del contingente di donne in età fertile (15-49 anni), da 11,6 milioni del 2023 a 9,2 milioni nel 2050, anche in previsione di una sperabile crescita della fecondità, avrà come conseguenza una ulteriore diminuzione delle nascite e quindi una minore domanda di servizi e prestazioni, ad esempio, dell’area pediatrica ed ostetrico-ginecologica, di cui si dovrà tenere conto anche nella programmazione numerica delle scelte professionali che dovranno essere orientate verso quelle aree dove maggiore sarà la domanda. Non solo: la forte riduzione come numero del bacino di potenziali nuovi lavoratori aumenterà la competizione tra i diversi settori professionali per accaparrarsi il personale disponibile e la sanità si dovrà attrezzare di conseguenza per risultare attraente.
Opposte sono invece le indicazioni che vengono dall’altro estremo della distribuzione per età, anche in virtù delle buone aspettative sull’evoluzione della speranza di vita (attesa in allungamento di alcuni anni): è in forte aumento il contingente anziano, a prescindere dalla specifica età che si vorrà prendere per definirlo, anche in virtù dell’arrivo nelle età adulte e senili delle folte generazioni degli anni del baby boom (nati negli anni 60 e prima metà dei 70 del secolo scorso), e con esso il numero dei decessi. E sappiamo che l’anzianità si accompagna con l’insorgenza di patologie croniche, con la multimorbilità, con la disabilità, con l’aumento degli anni non in buona salute, con la necessità di accompagnare adeguatamente i cittadini al compimento della loro esistenza.
E non si tratta solo di avere a disposizione specialisti di altre discipline, il che è ovvio, ma si tratta innanzitutto di capire il cambio di domanda di salute e di assistenza che questa prospettiva porta con sé. Non solo l’ospedale non è più il centro di gravità della cura ed il luogo di riferimento diventa il territorio; non solo il focus non è più sulla singola (o multipla) prestazione ma è sulla presa in carico globale del paziente; non solo l’obiettivo non è più la guarigione ma diventa “il miglioramento del quadro clinico e dello stato funzionale, la minimizzazione dei sintomi, la prevenzione della disabilità, il miglioramento della qualità della vita”; ma soprattutto cambia la domanda di servizi, perché si passa dalla preponderanza dell’intervento sanitario alla prevalenza delle attività sociosanitarie e di assistenza anche sociale, materia molto più fluida e molto meno organizzata ed ancora oggi poco presente (se non solo per alcuni aspetti marginali come l’ADI, Assistenza domiciliare integrata) all’interno del Servizio sanitario nazionale. E la preoccupazione è ulteriormente incrementata dal fatto che secondo l’Istat il processo di invecchiamento sarà maggiore nel Mezzogiorno, che è anche la parte di territorio del nostro Paese dove sono più assenti i servizi sociosanitari.
Questo passaggio dal sanitario al sociosanitario è aggravato da un’altra trasformazione demografica a cui si dà poca attenzione: la struttura della famiglia. Secondo Istat l’evoluzione di questo istituto va nella direzione di avere nei prossimi anni famiglie sempre più piccole, caratterizzate da una maggiore frammentazione, con un notevole aumento di persone sole e di nuclei familiari senza figli, e con aumento dell’instabilità coniugale, il che fa venire a mancare tutto quel carico di risposta alla domanda di salute e di assistenza che in passato gravava sulla famiglia e veniva da questa esperita nella estesa rete di parentele cui dava luogo la numerosità dei nuclei familiari, ma che già oggi non trova (e domani troverà ancora di meno) soluzione all’interno del nucleo familiare e si rivolge (e di più dovrà farlo in futuro) alla assistenza sociosanitaria.
Tra l’altro, per le famiglie unipersonali sono importanti le differenze di genere, perché portano sia ad una sostanziale diversità di patologie tra uomini e donne (e quindi di domanda di prestazioni e servizi) sia ad una differenza di bisogni sociosanitari. Fino a 64 anni di età la vita in solitudine, volontaria o meno, riguarda circa 5 milioni di cittadini (previsti stabili nei prossimi 10 anni), il 60,5% dei quali uomini, ma dopo i 65 anni sono le donne a prevalere e sono in forte crescita per via del ben riconosciuto vantaggio che le caratterizza in termini di lunghezza dell’attesa di vita.
Ancora, in termini di composizione della popolazione l’Istat ci ricorda il tema della migrazione, che vedrà nei prossimi anni un saldo attivo (immigrati-emigrati) di circa 200.000 unità ogni anno, contingente che comunque non riesce a riequilibrare il divario tra nati e decessi, che è tutto a favore di questi ultimi. L’immigrazione pone questioni di rilievo dal punto di vista sanitario, sia in termini di specifiche patologie di cui il SSN dovrà farsi carico, sia in termini di cultura della salute e di approccio alla cura, di prevenzione, di presa in carico e così via, che necessitano di modalità di affronto a cui il SSN può non essere preparato.
Da ultimo, ma solo per ragioni di necessaria brevità, dice ancora l’Istat: “Il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà da circa tre a due nel 2023 a circa uno a uno nel 2050”. Ogni soggetto in età lavorativa porterà sulle sue spalle un soggetto in età non lavorativa. Sarà ancora sostenibile un servizio sanitario fondato solo sulla tassazione o si deve cominciare a pensare a qualche percorso differente, sostitutivo o (forse meglio) integrativo? Non è solo un problema di quanta percentuale di PIL (6%, 7%, 8% ?) sarebbe opportuno dedicare al SSN, ma è una questione più generale della modalità con cui finanziare la domanda sanitaria e sociosanitaria.
In sintesi. I cambiamenti demografici che hanno interessato la nostra popolazione in questi anni e che ancora di più la interesseranno negli anni a venire hanno avuto e avranno l’effetto di modificare sostanzialmente i bisogni di salute dei cittadini e la successiva domanda di servizi e prestazioni che si sposteranno gradatamente dal contesto più specificamente sanitario a quello più tipicamente sociosanitario, ponendo non solo questioni generali di sostenibilità economica del SSN e di ridefinizione di cosa si debba intendere con Livelli essenziali di assistenza, ma richiedendo una revisione sostanziale di come il servizio sanitario, che dovrà rinunciare a questo accento per assumere una visione più sociosanitaria (che può sconfinare nel sociale), dovrà affrontare i nuovi bisogni di salute e le nuove domande di prestazioni e servizi indotti dai cambiamenti demografici in corso e/o previsti nei prossimi anni e decenni.
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