In questa accaldata e vacanziera Italia di Ferragosto (nonché festa dell’Assunzione) è esploso il caso dei minorenni orfani ucraini che il loro governo vorrebbe fossero rimpatriati. Non sono uomini da mandare al fronte, sempre più sguarnito di soldati. Sono bambini e bambine, al massimo di 16 anni, che hanno trovato rifugio da noi dopo l’inizio della guerra, come tanti loro coetanei che sono stati accompagnati qui dalle loro mamme o dai loro nonni o affidati dai loro genitori ad amici che potessero portarli in salvo, come i tre minorenni di Kharkiv che dopo pochi giorni dall’inizio della guerra arrivarono a casa mia, affidati frettolosamente a una professoressa universitaria che portava con sé la propria bambina.
Le case di alcuni di loro erano state distrutte dai primi missili caduti sulla città e si poteva notare dalle loro reazioni che ad ogni rumore sospetto, fosse solo quello di un temporale, portavano con sé il drammatico ricordo di quell’evento inaspettato.
Dopo qualche settimana fu il tribunale dei minori che, ricevuti i documenti ufficiali delle famiglie che affidavano i loro figli alla signora, riconobbe legalmente il loro stato. Esso, comunque, fino a quel momento era rimasto garantito da una solerte avvocatessa che era stata nominata loro tutore.
E così fu per molti altri, per i quali dovetti spesso collaborare anche come traduttore delle varie pratiche legali, comprese quelle per la vaccinazione per il Covid. Ricordo che in quel periodo, oltre a me, ci furono diverse famiglie della parrocchia o semplicemente del quartiere che si presero a carico dei rifugiati, in un clima di amicizia che andava tranquillamente al di là delle differenze ideologiche.
I “miei” minorenni sono spontaneamente tornati in Ucraina, non nella povera, martoriata Kharkiv, ma nella relativamente più sicura Kiev. E così tre settimane fa ho avuto la possibilità di andare a trovarli e di condividere ancora una volta un po’ delle loro preoccupazioni e del loro dolore, quello per i tanti amici scomparsi nella guerra.
Per quanto riguarda gli orfani è stato fatto tutto più o meno nello stesso modo. Sono stati affidati legalmente a famiglie e ad alcuni enti di accoglienza. Molti di loro hanno portato con sé pesanti traumi che provenivano da situazioni anche precedenti la guerra. Lo so per esperienza, per aver collaborato alla traduzione di alcuni documenti arrivati per informare della loro situazione.
Ora sappiamo che le autorità italiane hanno sospeso per il momento l’assenso per il loro rimpatrio al consolato generale dell’Ucraina, che lo chiedeva per i minorenni orfani. Intanto la gente comune si domanda: ma perché questi ragazzi e ragazze, bambini, dovrebbero tornare in un Paese che è ancora in guerra? E perché solo gli orfani? Alla seconda domanda è facile dare una risposta: perché questi ragazzini non hanno genitori in grado di opporsi alla richiesta del governo. Quanto alla prima domanda mi pare che l’Ucraina voglia dimostrare al mondo, quindi anche a noi, che oramai una gran parte del Paese è al sicuro, o quasi.
Sono capitato a Kiev proprio il giorno in cui fu bombardato l’ospedale pediatrico e ho ancora negli occhi l’orrore per la scena che il colonnello delle squadre di soccorso, che mi ospitava, mi mostrò, facendomi accompagnare sul luogo dell’eccidio.
Ora, non sta a me decidere cosa fare, prendo atto che le organizzazioni come l’Unicef e l’Unhcr si sono opposte alla richiesta del consolato ucraino, d’altra parte sembra che Telefono Azzurro si sia schierato per il rimpatrio, nel senso di rispettare l’identità ucraina dei piccoli che rischierebbero di essere italianizzati. Però questo aspetto può essere tenuto in considerazione favorendo il mantenimento delle loro tradizioni, come del resto abbiamo fatto anche noi, accompagnando i ragazzi nella loro chiesa ortodossa senza “cattolicizzarli”.
Poi certamente è vero che in una buona parte dell’Ucraina, passandoci, si ha l’impressione che la guerra sia lontana, ma basterebbe guardare le foto dei caduti che si trovano al centro di ogni città e di ogni villaggio per rendersi conto che la guerra ancora c’è, eccome. Speriamo che questa volta i nostri politici, uniti dalla comune convinzione che i figli, anche gli orfani, sono “ppiezz‘e core”, provino una volta tanto una comune posizione su quanto sta accadendo.
Che sia chiaro che i ragazzi, soprattutto quelli più grandicelli, che volessero, liberamente, tornare in patria, lo possano fare. Gli altri, soprattutto quelli tuttora in cura in certe cliniche, per ora ce li teniamo, perché, come dicono Aldo, Giovanni e Giacomo, siamo “bastardi dentro” ma in fondo a volte bastardi di buon cuore.
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