L’intensificarsi del dibattito sull’autonomia differenziata – perché è un’occasione di crescita per il Paese, perché invece rischia di spaccarlo più di quanto non sia – consente di tornare su alcuni concetti che l’animosità messa nell’affrontare l’argomento rischia di restituire distorti a danno della loro possibile comprensione. Anche nel campo di quelli che potremo chiamare Sudisti, coloro che combattono la riforma proponendo referendum abrogativi e ricorsi costituzionali, le posizioni appaiono molto diversificate a tutto beneficio di un avversario politico che ha trovato in Roberto Calderoli un regista accorto e preparato, non si sa quanto in buona fede.
In sintesi, le parti che si confrontano nel Mezzogiorno possono ritrovarsi su due fronti: a) qualsiasi forma di protesta non può prescindere dal presupposto di un’Italia che deve restare unita e agganciata all’Europa; b) che si valuti anche l’ipotesi di una secessione vera voluta e pilotata dal Sud piuttosto che subita per volere di un Nord egoista che non accontentandosi delle condizioni di favore di cui già gode vuole accrescere il livello dei privilegi rompendo il patto di solidarietà nazionale. La distanza tra le due proposizioni è siderale e i sostenitori della prima trattano con visibile sufficienza i propugnatori della seconda.
Tra queste due correnti dominanti e divaricate, ce n’è una terza che suggerisce di accettare la sfida e mostrare che quando si parla di responsabilità individuale e collettiva, efficienza amministrativa, efficacia operativa, le regioni e le popolazioni meridionali non sono seconde a nessuno. Certo, pretendendo senza se e senza ma che i presupposti del radicale cambiamento – in particolare la definizione e il finanziamento dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) – siano rispettati in modo da mettere tutte le parti nelle condizioni di concorrere alla pari. La competizione, se competizione dev’essere, non può essere truccata.
Naturalmente il meccanismo che potrà condurre all’autonomia è congegnato in modo tale da dare più chance ai favorevoli (che non sono identificabili nel Nord integralmente inteso, ma in alcune radicalizzate frange com’è dimostrato dal fatto che grandi organizzazioni come Confindustria suggeriscono prudenza), anche perché molti tra coloro che oggi si dichiarano contrari si sono distratti o fatti distrarre al momento di prendere le decisioni che adesso combattono. Insomma, c’è stato un risveglio di coscienza e di azione un po’ tardivo con la conseguenza che ci si ritrova a inseguire un risultato che poteva essere più facilmente raggiunto.
Ora, quello che emerge dal confronto in atto è l’impostazione essenzialmente legale della faccenda ridotta a materia per avvocati. Si tratta certo di un aspetto fondamentale perché alla fine per dirimere la controversia gli strumenti giuridici si riveleranno decisivi, ma chi volesse affidarsi solo a quelli avrebbe già perso. Ciò che manca è una visione di Paese a tutto tondo: di chi l’autonomia differenziata la vuole e di chi la contrasta pur con impostazioni molto diversificate al proprio interno. Sembra che le questioni di principio abbiano preso il sopravvento su quelle pratiche: che tipo di assetto dare all’Italia per allargare la sfera del benessere.
E stupisce la mancanza di studi scientifici approfonditi su quello che potrebbe accadere in un caso o nell’altro. Non sono disponibili simulazioni affidabili che possano dare un’idea dei percorsi alternativi che abbiamo davanti e sembra di assistere a un processo alle intenzioni – volete continuare a vivere sulle nostre spalle, ci volete affamare – accentuato dalla totale mancanza di fiducia reciproca. Anche chi propugna una divisione sul tipo di quella che ha riguardato la Cecoslovacchia – Slovacchia da una parte, Repubblica Ceca dall’altra – agisce sulla scorta di una reazione emotiva senza aver sottomano alcuno studio approfondito.
E, invece, come suggeriva un noto e acuto economista a proposito delle condizioni alle quali l’Italia avrebbe dovuto sedere alla tavola dell’Unione europea, per assicurarci il raggiungimento di un obiettivo A avremmo dovuto avere pronto un credibile obiettivo B senza sventolare minacce prive di consistenza perché non praticabili. Quando si punta una pistola – metaforicamente, s’intende – c’è bisogno che sia carica o almeno creduta come tale. Le armi farlocche fanno più male a chi le usa che a chi se le vede puntare contro. Ci vuole più preparazione sul campo della controversia, più accuratezza nei contenuti che possa sorreggere la forza della volontà.
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