Nella seconda giornata del Meeting di Rimini 2024, dal titolo “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?”, interverrà anche padre Gianni Criveller, direttore dell’agenzia di stampa AsiaNews e della rivista Mondo e Missione, e lo farà nell’incontro “Storie di rinascita a Taiwan”. Infatti, padre Criveller ha vissuto per 20 anni in Cina, a partire da Taiwan, per poi trasferirsi a Hong Kong e Macao, raggiungendo infine la Cina popolare. Pertanto è uno dei maggiori conoscitori della Cina e, nel contempo, uno dei maggiori studiosi di Matteo Ricci, il grande missionario vissuto a cavallo tra il XVI e XVII secolo, al quale, come punto di riferimento ideale, ha dedicato molti anni di studio.
“Sono arrivato a Taiwan nel 1991 – racconta padre Criveller – prima nella città di Kaohsiung (nel Sud) e poi a Taipei, la capitale dell’isola. Ricordo la vita delle comunità cattoliche, vivace sia nelle città che nei villaggi remoti dell’interno, dove vivono i gruppi etnici originari dell’isola. I credenti cattolici sono sempre stati percentualmente minoritari, ma hanno avuto un impatto riconosciuto nella vita sociale del popolo di Taiwan”.
Padre Gianni, a che cosa era interessato?
Alle storie di conversione. Non erano numerose ma significative, perché riguardavano soprattutto i giovani universitari. Ne ricordo uno in particolare, Leonardo Hong, un ragazzo con cui avevo fraternizzato nei gruppi studenteschi dell’università di Fujen, e che proprio in quei mesi riceveva il battesimo. Lo intervistai per un giornale di Hong Kong. Mi ricordo come rispose alla domanda “cosa sanno i ragazzi cinesi di Gesù?”, perché mi disse “la prima cosa che viene in mente ad un cinese quando sente il nome di Gesù è che non è cinese”. Anche oggi sono colpito da questo fatto, sostanzialmente vero, e che rimane una grande sfida per l’evangelizzazione.
La Cina sta facendo una forte pressione militare, commerciale, culturale, psicologica sull’isola, allo scopo di integrarla nella Repubblica popolare, come ha già fatto con Hong Kong attraverso l’instaurazione di un regime dittatoriale. Quali possibilità di resistenza efficace intravvede per Taiwan?
Le vicende di Taiwan e Hong Kong, per quanto hanno in comune l’anelito alla democrazia e alla libertà di entrambi i popoli, non sono esattamente equiparabili. Hong Kong era una colonia inglese che doveva ritornare alla madre patria. Taiwan invece è un territorio che si riconosce, ora almeno formalmente, come Repubblica di Cina, alternativa alla Repubblica popolare cinese, che ha Pechino per capitale, e che vuole riportare Taiwan dentro l’unica grande Cina. È chiaro che Taiwan, una piccola isola di 23 milioni di abitanti, non potrà resistere in caso di invasione armata. La soluzione è la permanenza dello status quo, dove entrambe le parti riconoscano che c’è una sola Cina, ma che sono libere di dare una diversa interpretazione al significato di quest’espressione. Certamente, se anche la Cina continentale diventasse democratica, il tema di Taiwan sarebbe posto in modo diverso. Ma per il momento questa è una prospettiva lontana. Meglio puntare sull’auto-controllo da entrambe le parti: Taiwan evita di dichiarare formalmente l’indipendenza e la Cina rinuncia all’uso della forza.
In questo contesto, intravvede un compito per la piccola comunità cattolica di Taiwan?
I cattolici, pochi, hanno una certa influenza a livello sociale, educativo e sanitario. Anche leader politici importanti, come l’ex primo ministro e vicepresidente Chen Chien-jen, sono cattolici. Lee Teng-hui, l’uomo che nei primi anni Novanta ha portato l’autonomia di Taiwan ai massimi livelli creando la prima democrazia cinese della storia, era protestante. Insomma, l’impatto della fede cristiana conta molto più delle percentuali.
Lei ha vissuto anche a Hong Kong e ha conosciuto personalmente i leader della resistenza all’annessione forzata della città alla Repubblica popolare cinese. Quali volti, quali ricordi e impressioni porta nel cuore?
Ho visitato in carcere due volte (nel marzo 2023 e 2024) Lee Cheuk-yan, che nel novembre del 2019 era stato ospitato da Tempi a Milano e Lecco, dove raccontò il suo impegno per la libertà e la giustizia. Eravamo insieme sul palco del Teatro del Pime di Milano. Mi sembra incredibile che ora sia in prigione. Battezzato nella chiesa anglicana, Lee Cheuk-yan, quando era libero cittadino e parlamentare, frequentava con la moglie sindacalista la parrocchia cattolica e i missionari italiani. Una vita e una coppia tutta dedicata alla giustizia sociale, motivati dalla fede cristiana. Per molti anni Lee è stato il protagonista principale delle veglie di Tienanmen. La sua prima esperienza di imprigionamento fu nel 1989 a Pechino, dove si era recato per portare agli studenti di Tienanmen la solidarietà della gente di Hong Kong. Dopo il ritorno a Hong Kong, Lee ha vissuto la sua vita di cittadino cinese e di cristiano, di sindacalista e parlamentare come un impegno per la libertà, la democrazia e la giustizia. Di fronte al giudice, nell’aprile 2021, Lee Cheuk-yan ha riletto la sua vicenda alla luce dei misteri della Settimana Santa, a cui aveva partecipato qualche giorno prima: il suo arresto, processo e condanna alla luce di quelli dello stesso Gesù.
Che ne è della sua battaglia?
Ora i suoi ideali sono sconfitti su tutto il fronte; nei miei due brevi incontri con lui, durati ciascuno 15 minuti, mi chiedevo quali parole avrei dovuto dire per incoraggiarlo. Non ne ho avuto bisogno. È stato lui a dare coraggio a me. Ho incontrato un uomo libero e forte.
Negli anni che ha vissuto nella Repubblica popolare cinese ha conosciuto direttamente le varie realtà che compongono la Chiesa cattolica, sia quella ufficialmente riconosciuta e controllata dal regime, che quella clandestina. Ritiene che l’accordo segreto sottoscritto dal Vaticano nel 2018 con le autorità cinesi, poi prorogato nel 2020, abbia consentito una maggiore libertà per i cattolici in Cina?
Papa Francesco ha affermato che, malgrado la possibilità di essere ingannati e nonostante tutto, non c’è altra via che il dialogo. Non si può che concordare. Quando mi permetto, e non sono certamente l’unico, di sottolineare che l’accordo non funziona come si era sperato e che sul campo la situazione rimane molto critica, non è perché sia favorevole ad interrompere l’accordo e tanto meno il difficile dialogo tra Vaticano e Cina. Lo facciamo per lealtà verso i nostri fratelli e sorelle della Cina, per le informazioni che ci inviano e i commenti che non possono esprimere. Vicende che raccontano apprensione e dolore. Come ho già avuto modo di affermare, rimane il problema fondamentale della Chiesa in Cina, la sua libertà, che in questi ultimi anni, a mio parere, non è aumentata.
Trentacinque anni fa, i suoi superiori hanno deciso di mandarla in missione in Cina proprio pochi mesi prima della strage di piazza Tienanmen. Cosa ha portato quegli studenti a rischiare la vita?
Le proteste della primavera del 1989, che hanno avuto in Piazza Tienanmen il cuore, erano estese anche ad altre città della Cina. Gli studenti sono sempre stati l’avanguardia della nazione, fin dal movimento rivoluzionario del 4 maggio 1919. Non si sa quante persone siano state uccise, forse non lo sapremo mai: non solo ragazzi, ma anche cittadini di Pechino e di altre città. Oggi in Cina questo argomento è completamente scomparso; non credo proprio che i giovani ne siano a conoscenza. Tuttavia, fu un momento importante; i giovani chiedevano libertà e democrazia. Si dice che abbiano fatto errori, che siano stati ingenui, che qualcuno li ha manovrati. La stessa cosa si dice del movimento giovanile di Hong Kong, dalla rivoluzione degli ombrelli del 2014 alle proteste del 2019. Se, ma solo per ipotesi argomentativa, ci sia qualcosa di vero, non riesco a comprendere come gli errori dei giovani possano giustificare la repressione violenta e il massacro di Pechino e le prigioni di Hong Kong.
Vent’anni fa gli studiosi cinesi hanno evidenziato un fenomeno allora presente in Cina, definito come “febbre cristiana”, cioè un diffuso interesse per l’esperienza cristiana. Ritiene che nell’attualità sia rimasto qualcosa di quella “febbre”?
La “febbre cristiana” fu la crescita della presenza cristiana nel mezzo dell’incremento esponenziale delle religioni, registrato a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Il culmine della “febbre” si ebbe nell’ultimo decennio del XX secolo e la crescita continuò nei primi anni di quello attuale. Il cristianesimo, nelle sue varie forme, soprattutto quelle irregolari, carismatiche e pentecostali, ha raggiunto quasi 70 milioni di persone, ovvero circa il 5% degli oltre 1.400.000.000 abitanti. Il cristianesimo cresce soprattutto nelle città, tra i giovani universitari e la nuova classe imprenditoriale. Nello stesso tempo, dagli anni Novanta fino a dieci anni fa, in Cina fiorirono centri per lo studio del cristianesimo, guidati dai cosiddetti “cristiani culturali”, cioè studiosi che erano in sintonia con la fede cristiana e vi aderivano spiritualmente e idealmente.
Cosa ha rappresentato la loro esperienza?
I cristiani culturali furono toccati dal cristianesimo a livello personale: divenne un orientamento per la vita personale, morale e persino spirituale. Non si univano necessariamente a una chiesa cristiana chiedendo il battesimo. Alcuni, invece, privilegiavano la dimensione mistica della fede. Gli studiosi cristiani promuovevano con grande impegno la teologia sino-cristiana e i suoi compiti spirituali, etici e sociali. Negli ultimi anni, la sfiducia del governo nei confronti della religione e le nuove limitazioni alle attività religiose, ponendole sotto stretto controllo, hanno ridotto lo spazio per queste aperture. Il termine “cristiano culturale” è oggi quasi caduto in disuso. Il confucianesimo politico pretende, oggi, di essere l’unica espressione del pensiero cinese.
Tredici anni fa lei è stato espulso dalla Cina. Com’è accaduto, con quali motivazioni e cosa ha voluto dire per lei?
Nel luglio 2011 fui respinto all’aeroporto di Pechino, nonostante avessi ottenuto da poche settimane un visto di lavoro valido 13 mesi, essendo direttore della ricerca in un Centro studi presso un’università della capitale. Dopo una notte passata all’aeroporto, isolato in una sala d’attesa e dopo ore di veglia, con il visto cancellato, fui fatto salire sul primo aereo per Hong Kong. Pur essendo stato trattato sempre con gentilezza, fu un’esperienza piuttosto traumatica: ero pur sempre costretto a fare cose che non volevo e mi resi ben conto che si trattava della fine anticipata di un progetto di vita a cui avevo dedicato tante energie e speranze. Un progetto che aveva Pechino come meta. A 19 anni dal primo arrivo a Taiwan (1991) e dopo aver a lungo risieduto a Hong Kong e Macao, nel 2010 mi ero finalmente stabilito a Pechino.
Perché non la lasciarono entrare?
Fui respinto per ritorsione: la Santa Sede aveva formalizzato la scomunica ad alcuni vescovi cinesi che avevano accettato di essere ordinati illegittimamente. Le autorità cinesi non la presero bene e ad alcune persone, tra cui io, fu impedito di tornare in Cina. Venni incluso nella lista, ho motivo di credere, per alcuni articoli che anni prima scrissi sulla politica religiosa. Seguì per me un periodo di amarezza e di senso di fallimento, che superai anche grazie a sei meravigliosi mesi sabbatici a Gerusalemme. Dopo cinque anni, il divieto fu tolto e nella primavera del 2016 fui invitato a parlare a un convegno dedicato a Matteo Ricci nella città di Nanchang, la quarta tappa della sua ascesa a Pechino.
(Flavio Zeni)
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