Il naufragio di Porticello chiama alla memoria sinistri precedenti nei quali spedizioni o gruppi di turisti e viaggiatori hanno trovato sorte infausta anche facendo gite nautiche che normalmente succederebbero senza quel tasso di pericolosità e di carica potenzialmente letale. C’è anzi da rimarcare come sempre più spesso l’estetica sia diventata totalmente espressiva delle sciagurate divisioni sociali del nostro tempo, il tempo nel quale in sostanza anche il codice della morte non risponde nemmeno più a dinamiche di classe, bensì a circostanze dettate dalla società dell’immagine.
Il sociologo francese Pierre Bourdieu aveva abilmente intuito quanto il capitale reputazionale fosse decisivo ai fini dell’apprezzamento civile di una persona: dimmi come appari e ti dirò come sarai. Era forse un adattamento alla post-modernità della convenzione calvinista circa la predestinazione: l’enorme successo riscosso in vita non poteva che essere prodromico al destino esistenziale seguente alla dipartita terrena. Era cambiato il tempo: un tempo in cui non si riconosceva più il discorso sulle cose ultime insondabile eppure imprescindibile dalla vicenda umana; era la fortuna mondana in quanto tale a divenire emblema di una salvezza purchessia.
Cos’è cambiato a nostra volta oggi? Certamente la concezione della ricchezza poggia non più sulla durevolezza del guadagno acquisito, ma sulla cornice morale che ne edifica l’esperienza sensibile. In altre parole, il contesto nel quale ci troviamo recupera la sua morale nella sua stessa fenomenologia. L’intrapresa individuale è sempre più spesso riassunta nell’immagine che essa riesce a dare di sé nel luogo comune.
È ormai facile osservare lavoratori a tutti gli effetti poveri: il reddito derivante dalle proprie fatiche non assicura più in tutti i casi una esistenza libera e dignitosa. Il lavoratore di ogni giorno, impiegato precario o sottoccupato nel settore dei servizi, gode di una pessima pubblicità: soggetto al quale si chiede di produrre. Ci si è abituati, al contrario, a fare dell’imprenditore multinazionale, capace di promuovere sé stesso attraverso una trionfalistica comunicazione digitale, l’emblema dell’homo faber. Colui che ha pazientemente costruito le sue fortune, quello che si rimbocca le maniche mentre gli altri gozzovigliano: la sua salvezza è che gli sia associata titanica fatica individuale quando vive attraverso la rendita.
La sollecitudine con la quale i soccorsi palermitani stanno cercando di venire a capo dell’intervenuto disastro sono dispendiosi quanto encomiabili. Ribaltiamo la canzone di De André, Il testamento di Tito: un ladro non muore di meno, anche un ricco, ricchissimo, al momento del trapasso a seguito di una tragedia, è qualcuno che ha la dignità e il diritto di dover essere soccorso nell’attimo nel quale la vita si conclude. Del resto, Joseph Conrad aveva ammonito sulla voracità della sorprendente catastrofe nel mare in tempesta: universale più che interclassista, capace di trascinare a sé nell’abisso chicchessia. In fondo anche Melville, nella eterna lotta tra Achab e la balena, nonostante l’inclinazione religiosa di Conrad fosse profondamente diversa da quella di Melville, aveva raccontato la tragedia dell’imbarcazione che affonda incatenando a dipartita sciagurata un equipaggio tutto, a prescindere dalla sua connotazione etnica, di cittadinanza, di religione, di inclinazioni personali. Il riserbo per la morte era collante antropico, sia per millenaristi disadattati sia per avventurieri secolari.
I tempi in cui viviamo però sono tragicamente sottoposti al persistente abominio del naufragio in mare. Non arriva alcuna notizia delle morti sul lavoro nelle piattaforme sui mari del Nord; sappiamo pochissimo e anzi quasi niente sulla pirateria in Africa o nel Mar Giallo, predatori manipolati anche a fini geopolitici. Per di più quando avviene un naufragio tra i barconi dei migranti, di là dalle lacrime circostanziali, periscono donne, bambini e anziani (le categorie per le quali la gente del mare ha tradizionalmente e persino giuridicamente la maggior sollecitudine). Ci si restituisce allo sguardo sul teleschermo o sullo smartphone un calendario indistinguibile senza avere nome e riconoscimento ufficiale.
All’educazione del nostro occhio è loro impedito anche di rilevare in quanto persone. Potrà ad esempio rimproverarsi alla Chiesa di avere assunto una timbrica mediatica più simile alle organizzazioni non governative, una postura di solidarietà talvolta secolare. Ma quella stessa Chiesa, che pur può meritare le critiche degli spiriti fedeli e degli osservatori scettici, è tra le grandi agenzie del nostro tempo, almeno al livello di gerarchia, l’unica a intestarsi una battaglia di civiltà sulle cause socioeconomiche delle morti in mare. Un esercito disarmato non solo delle munizioni, ma persino dei documenti.
Stiamo sostenendo, cioè, che il nostro tempo vive il dramma collocandolo tra due sfere semantiche che prima d’ora non gli erano mai appartenute così visibilmente: da un lato il pettegolezzo, elaborare congetture sul vissuto di chi è incorso in fine nefasta, e dall’altro le implicazioni assiologiche del riconoscimento sociale di una persona. Se già notoriamente distinguibile e distinta, oppure destinata a non aver mai identificazione. Abbiamo superato il formalismo togliendogli il residuo contenuto di giustizia che il diritto documentale reca con sé.
Solo tra di noi chi si conosce è perciò riconosciuto inderogabilmente destinatario della maggiore attenzione e della maggiore trepidazione. Sono forse antipatiche quelle ricostruzioni vendicative per le quali le sventure occorse a miliardari celebrano il calderone indistinto che esprime la natura livellatrice della morte contro le sperequazioni della vita. È anche vero che ciò che non è giustificabile è comunque comprensibile. Il conservatore Alphonse Daudet, nelle Lettere dal mio mulino, saluta l’eterna sconfitta della lotta di classe: l’odio è la collera dei deboli, scrive.
Si vive un mondo nel quale persino il travaglio del post mortem, al momento l’unica condizione solo specificamente umana e contemporaneamente davvero universale, è questione di capitale accumulato in quanto precondizione essenziale al riconoscimento della visibilità e della tutela. Nel luttuoso naufragio di Porticello almeno una cosa viene a galla: la perdita del senso di umanità è la sola cosa per la quale non è detto che la pericolosità delle onde possa mai regalarci quella misericordia che più non sappiamo chiedere a Dio.
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