La giunta militare, per mantenere il potere, bombarda senza ritegno anche i centri abitati dove hanno sede le famiglie di origine dell’attuale classe dirigente del Paese. Una guerra (civile) senza quartiere nella quale la resistenza ha già sottratto agli autori del golpe del 2021 parte del territorio nazionale, senza che questo significhi, però, aver intaccato veramente il potere dei militari.
Quello del Myanmar, anche se totalmente dimenticato a livello mediatico, è un conflitto fondamentale nello scacchiere asiatico, perché proprio lì, osserva Ranieri Sabatucci, ambasciatore UE nel Myanmar, la Cina cerca un’alternativa allo stretto di Malacca, dove passa gran parte del commercio internazionale. Per questo Pechino, insieme alla Russia, sostiene la giunta militare, mentre USA e UE hanno comminato sanzioni relative a diversi settori economici. L’Europa ha comunque interessi economici nel Paese ed è presente con alcune ONG.
Della situazione in Myanmar, Sabatucci parlerà proprio oggi alle 14 al Meeting di Rimini, insieme ad AVSI, una delle organizzazioni che opera sul territorio birmano.
In Myanmar continua la contrapposizione fra la giunta militare e la resistenza, che rappresenta una realtà molto composita. Qual è la situazione in questo momento?
In Myanmar, da tre anni e mezzo, l’attuale governo è in conflitto con il resto del Paese: tutti ce l’hanno con i militari al potere. Lo scontro della giunta è anche con i Bama, cioè con il loro gruppo etnico, che costituisce il 60% del Paese. I militari uccidono e bombardano villaggi da cui sono provenuti loro stessi o le loro famiglie. Tra i gruppi etnici che si oppongono, alcuni sono più allineati con i Paesi vicini, altri sono più autonomi. Si presenta spesso la resistenza come frammentata, ma non è un elemento così strano: il Paese non è mai stato unificato, vive da sempre in una realtà frammentata.
Ci sono contatti tra i gruppi che si oppongono alla giunta militare?
Alcuni gruppi importanti sono in contatto. C’è un’autorità che si sente di rappresentare il Paese a livello generale, il NUG (National Unity Government), accusato di essere troppo vicino all’etnia Bama: collabora con una serie di gruppi etnici e ha contatti meno intensi pure con altri gruppi.
Chi sta avendo il sopravvento? La giunta militare controlla tutto il Paese?
Il regime continua a perdere terreno ma non è ancora con le spalle al muro. Controlla i centri urbani principali, anche se ne ha perso qualcuno, quindi la vecchia capitale e quella attuale, più una regione del sud-ovest. Non ha controllo, però, su gran parte del Paese. Alcuni analisti dell’opposizione dicono che quest’ultima ha il controllo del 70% del territorio, ma ci sono zone alle quali i militari, pur non essendo presenti, potrebbero comunque accedere se lo volessero. Insomma, per la giunta militare il trend è negativo, ma non siamo vicini al punto finale.
La repressione da parte della giunta militare viene descritta come brutale. È così?
Il Myanmar aveva uno degli eserciti più potenti della zona, anche se ora la resistenza ha ridotto il gap. L’esercito ha atteggiamenti incomprensibili dal punto di vista umano, di violenza e barbarie nei confronti di persone che sono membri della loro stessa comunità. È un conflitto orrendo, brutale.
La comunità internazionale sta agendo in qualche modo? Che ruolo ha la Cina?
La comunità internazionale è estremamente divisa, il Consiglio di sicurezza dell’ONU non produce mai niente sul Myanmar perché Russia e Cina si oppongono. Pechino è passata sempre di più a sostenere la giunta militare: difende i suoi interessi. La Russia è il più grande fornitore di armi e sa benissimo che verranno usate contro la gente.
Perché il Myanmar è così importante per i cinesi?
È un Paese strategico. La grande debolezza cinese oggi è che, per il commercio e la sicurezza, dipende dallo stretto di Malacca, tra Singapore e Indonesia. Il commercio petrolifero e internazionale passa di lì. Per questo sta cercando delle alternative: quella più efficace è di creare un sistema di comunicazione tra la Cina e la costa del Myanmar. Per questo ha costruito una pipeline. In più, il Myanmar, in cui Pechino è leader negli investimenti, è ricchissimo di materie prime, minerali rari, gioielli. Quella di essere autonomi dalla Cina è la preoccupazione storica del popolo birmano.
USA e UE hanno preso iniziative?
Noi abbiamo tre obiettivi: uno è di sostenere un ritorno effettivo alla democrazia, il secondo di aiutare il popolo birmano, vittima della situazione, il terzo è cercare di mantenere una presenza europea, non solo dal punto di vista economico, ma anche per quanto riguarda le organizzazioni non governative.
Quindi c’è una presenza europea?
Sì. Non a livello dei cinesi, ma c’è. L’Europa ha applicato sanzioni per l’80% simili a quelle degli USA. Abbiamo sanzionato l’ente del gas del Myanmar, gli americani no perché danneggerebbe i loro partner thailandesi. Per contro, gli Stati Uniti hanno sanzionato le banche statali e noi europei no. Anche Gran Bretagna, Canada e Australia hanno optato per le sanzioni.
Ma in che modo la UE è presente?
Dal 2012, dall’inizio del processo delle riforme economiche, fino al 2015, l’anno in cui Aung San Suu Kyi ha vinto le elezioni, fino al colpo di Stato, c’è stato un periodo di progresso economico, con parecchi investitori europei. Al Paese sono stati offerti dei privilegi commerciali: ancora oggi la Birmania può esportare duty-free quello che produce e non deve ricambiare, un beneficio che l’Europa dà ai Paesi in via di sviluppo. Questo ha permesso di sviluppare un’industria del tessile. Molti prodotti Zara e H&M sono stati realizzati in Myanmar, e questo ha creato centinaia di migliaia di posti di lavoro per donne. Uno degli obblighi che ci sentiamo di avere è di preservare questa situazione, anche per aiutare la gente, che altrimenti avrebbe un destino drammatico. Esistono imprese europee anche nel settore del turismo.
In cosa consiste il suo ruolo come ambasciatore UE?
Lavoro con gli Stati membri UE per elaborare delle posizioni comuni in relazione al Myanmar, in modo che i Paesi europei possano avere un peso maggiore. Materialmente, ho un ufficio con 50 persone, siamo una delle più grandi entità diplomatiche. Abbiamo un ruolo di coordinamento delle posizioni europee che riguarda tutto quello che avviene qui. Ci occupiamo di cooperazione, di questioni commerciali, ma anche della difesa di chi combatte per i diritti umani nel Paese.
(Paolo Rossetti)
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