Il Meeting di Rimini 2024 ricorda oggi il magistrato Rosario Livatino anche attraverso le parole del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Fabio Pinelli. La giustizia italiana, infatti, è rappresentata da tanti magistrati competenti e autorevoli che lavorano per il “bene” dell’Italia, preferendo il servizio al potere: uno di questi è proprio il magistrato assassinato dalla mafia, di cui Fabio Pinelli parla in occasione dell’incontro dal titolo “Dagli uomini d’onore agli uomini d’amore“, dalle ore 13 di oggi, domenica 25 agosto 24, al Meeting di Rimini.
Memoria vivente di Rosario Livatino
In questo mio intervento conclusivo vorrei offrirvi una riflessione che costituisca memoria vivente della testimonianza di Rosario Livatino, certamente “uomo d’amore”.
Quando si rammemora qualcuno e il suo pensiero, il rischio è sempre quello di un’appropriazione: di far dire a chi si ricorda ciò che in realtà noi pensiamo, di dare ai nostri pensieri l’autorevolezza attribuita a chi non c’è più.
È questo un rischio della rammemorazione – quello del tradimento del rammemorato – ma anche una sfida: la sfida di rendere vivo e attuale il pensiero e l’esempio che ci deriva da quel ricordo, evitando di farne una sorta di “santino”, una immagine oleografica ed edificante, che resta però chiusa in un passato da cui ci separa un invalicabile corso di tempo.
È necessario allora minimizzare i rischi di tradimento e cercare di vivificare nell’oggi le parole e la vita del beato Rosario Livatino, con l’approccio dello storico e del filologo.
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È il 1984 e Rosario Livatino è da cinque anni Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Agrigento: sei anni dopo verrà assassinato dalla Stidda, ma ora, nella sua città natale, a Caniccatì, in un uno dei suoi rari interventi pubblici, tiene un discorso sul “ruolo del giudice nella società che cambia”.
Un discorso che potremmo definire “profetico”: Livatino non solo anticipa temi oggi in discussione (40 anni dopo), ma si dimostra capace di dialogare con un futuro che in questa epoca dobbiamo ancora affrontare e risolvere; ci lancia proposte che attendono di essere ad oggi pienamente raccolte e sviluppate.
Affronta il tema dei rapporti tra magistratura e politica, la questione della “immagine esterna” del magistrato, il problema della sua “responsabilità”. Temi, questi, legati da un sottile filo rosso, rappresentato dal ruolo che deve essere riconosciuto alla magistratura nella sua attività interpretativa e applicativa, alla luce del principio della “sottoposizione del giudice alla legge”.
Livatino si rende ben conto che il mito del giudice “bocca della legge” è un’illusione e che il magistrato ha invece una responsabilità di fronte alla società che cambia davanti a lui. Per usare le sue stesse parole: “il ruolo del giudice non può sfuggire al cammino della storia: tanto egli che il servizio da lui reso devono essere partecipi di un processo di adeguamento”. Il magistrato non è “un semplice riflesso della legge che è chiamato ad applicare” e ben “può utilizzare quello fra i suoi significati che meglio si attaglia al momento contingente”.
Livatino, dunque, non disconosce l’esistenza di quel “nuovo rapporto” fra magistrato e norma legislativa che poi diventerà ricorrente nel dibattito odierno; un rapporto che, come egli stesso si esprime “comporta […] di necessità che anche il [magistrato] esca dalla propria torre eburnea di immutabilità, di ibernazione sociale, divenendo attento, sensibile a quanto accanto a lui si crea, si trasforma, si perde”.
Tuttavia egli è altrettanto consapevole che il magistrato non può lasciarsi attrarre da chi, per usare le sue stesse parole, lo vorrebbe di volta in volta garante degli “interessi forti” o degli “interessi deboli”; da chi vorrebbe che la magistratura diventi un soggetto attivo nella congiuntura economica, così da trasformare – sono le sue esatte parole – l’aula giudiziaria in un “luogo di necessario [… e] dovuto riequilibrio fra parte sociale forte e parte sociale debole”.
Livatino non ha dubbi: entrambe le prospettazioni – giudice garante del sistema e degli interessi forti e giudice garante dei deboli, riequilibratore delle ingiustizie sociali – sono senz’altro da rifiutare in quanto, per usare le sue espressioni, “il ruolo che vogliono prefigurare è tale che il magistrato, che dovrebbe assumerlo, non sarebbe più tale in quanto imprimerebbe a se stesso ed ai propri compiti dei caratteri e delle finalità totalmente estranei a quello che ancora oggi è il prototipo dell’interprete giudiziario”, quello cioè di una “figura super partes”.
Livatino, dunque, individua immediatamente nel principio costituzionale di “imparzialità del giudice” l’elemento costitutivo e il fondamento di legittimazione della magistratura (nella sua autonomia e indipendenza), un principio al quale non si può e non si deve abdicare.
Con grande e profetica acutezza egli osserva che è “proprio per evitare ogni forma di strumentalizzazione della giustizia” che la Costituzione “garantisce l’indipendenza personale dei singoli giudici, soggetti esclusivamente alla legge (art. 101), nonché quella della magistratura nel suo complesso, descrivendola come ‘ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere’ (art. 104)”.
Il giudice beato impersonifica l’idea di un magistrato che, in linea con il progetto costituzionale, allontani da sé “ogni pericolo o sospetto di faziosità e di settarismo, sia nell’aspettativa di vantaggi personali o per il timore di pregiudizio, sia in forza dell’interferenza di altri poteri dello Stato nella funzione giudiziaria”, queste le sue esatte parole.
Mi permetto, a questo punto, una breve digressione sull’attualità: non bisogna mai dimenticare che chi, per ruolo istituzionale, è chiamato a svolgere, in qualunque sede, funzioni giurisdizionali, deve assumere su di sé “le responsabilità della propria indipendenza”, valore da salvaguardare non solo dal punto di vista ordinamentale, ma anche come dovere di essere “impermeabili” da ogni influenza esterna. Il magistrato sotto questo punto di vista, non certo rispetto alla sua sottoposizione alla legge, deve avere la capacità di dimostrare nei fatti e senza soluzione di continuità di essere davvero un “uomo libero”.
Ecco il modello di “giudice secondo Costituzione” che Livatino ha in mente e che ha incarnato, con un coraggio e una coerenza di comportamento, che lo porteranno alla morte per mano omicida della criminalità organizzata.
Un pensiero complesso, dunque, quello di Livatino, che non banalizza in senso favorevole o contrario il tema dell’attivismo giudiziario, e che delinea inoltre il modo in cui deve essere risolto il difficile rapporto che la magistratura intrattiene con la politica: un pensiero “scomodo” che va preso nella sua interezza, senza infingimenti o addomesticamenti di sorta.
Da un lato, infatti, Livatino riconosce che – cito le sue esatte parole – non si può “sopprimere nell’uomo-giudice la possibilità di formarsi una propria coscienza politica, di avere un proprio convincimento su quelli che sono i temi fondamentali della nostra convivenza sociale”, di talché nessuno potrebbe “contestare al giudice il diritto di ispirarsi, nella valutazione dei fatti e nell’interpretazione di norme giuridiche, a determinati modelli ideologici, che possono anche esattamente coincidere con quelli professati da gruppi od associazioni politiche”. Affermazione netta che può scandalizzare alcuni o entusiasmare altri, ma che non può essere presa da sola, in quanto è accompagnata da una importante precisazione.
Infatti, è essenziale che – uso ancora le sue stesse parole – “la decisione nasca da un processo motivazionale autonomo e completo, come frutto di una propria personale elaborazione, dettata dalla meditazione del caso concreto; non come il portato della auto-collocazione nell’area di questo o di quel gruppo politico o sindacale, così da apparire come in tutto od in parte dipendente da quella collocazione”.
Ecco di nuovo comparire il tema dell’“imparzialità” intesa come indipendenza di pensiero e di giudizio, che si deve pur sempre esprimere nei limiti dei significati che possono essere attribuiti alla legge in rapporto al caso concreto. Una “libertà morale”, quella del magistrato, che deve essere inscritta nella consapevolezza dei limiti istituzionali in cui si muove, a sua volta espressione particolare di quella limitatezza insita nella “creaturalità” di ogni essere umano, che non può credere, in quanto uomo, di possedere da solo la “Verità” o la “Giustizia”, senza rischiare di far passare come “Vero” e “Giusto” in assoluto, solo quella che è la propria personale idea di “verità” e di “giustizia”.
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L’imparzialità è talmente importante da dover essere garantita anche nella sua “apparenza” di fronte alla società.
Egli riconosce, infatti, che l’indipendenza del giudice “non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni”, ma è anche “nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza”, per poi concludere con la fulminante e attualissima frase secondo cui “l’indipendenza del giudice è […] nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività”.
Ecco la “credibilità” del magistrato come momento fondante della sua legittimazione e delle sue garanzie.
È una credibilità che si gioca non solo nelle decisioni e nelle scelte che compie allorché indossa la toga, ma anche nelle più generali manifestazioni della sua persona.
Livatino è estremamente chiaro sul punto e va citato letteralmente: “è da rigettare l’affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice […] della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole”.
Qui Livatino introduce una importante distinzione tra ciò che attiene alla “vita strettamente personale e privata” e ciò che riguarda la sua “vita di relazione”, i rapporti con l’ambiente sociale nel quale egli vive.
È nella vita di relazione che il magistrato deve offrire una immagine di sé “credibile”.
Ed è proprio sull’“immagine di magistrato” che Livatino ci offre la sua ultima e forse più illuminante indicazione, con parole precise e perfette che meritano di essere ricordate: non si tratta infatti di presentarsi come “persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale”, ma semplicemente di mostrarsi come “persona equilibrata [e…] responsabile”, una “persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire”, perché. “[s]olo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare che egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha. Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà ricevere ed assumere come se fossero sue e difendere davanti a chiunque”.
Rosario Livatino è ben consapevole di quanto gravoso sia l’onere imposto, in questo modo, alla magistratura che, proprio per questo, non può e non deve essere lasciata sola in questo suo sforzo di “credibilità”: essa deve essere aiutata dalle altre istituzioni che devono creare le precondizioni perché ciò sia possibile.
Prima di tutto deve essere aiutata dal legislatore, perché – come egli afferma con parole inequivoche – “la magistratura, per restare ancora fedele al dovere costituzionale di fedeltà alla legge” ed “evitare ondeggiamenti, incertezze ed ulteriori ingiusti rimproveri” ha bisogno di “poter disporre di dettati normativi coerenti, chiari, sicuramente intelligibili”.
Per Livatino “riformare la giustizia, in senso soggettivo ed oggettivo, è compito non di pochi magistrati, ma di tanti: dello Stato, dei soggetti collettivi, della stessa opinione pubblica”, perché “[r]ecuperare […] il diritto come riferimento unitario della convivenza collettiva non può essere, in una democrazia moderna, compito di una minoranza”, cioè dei soli magistrati.
Questo diceva Livatino ed era il 1984; parole ancora attualissime.
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Evitato ogni possibile rischio di appropriazione del pensiero e della vita del beato Livatino, vi è da quale lezione si può trarre oggi dalla sua testimonianza.
Tre punti mi sembrano importanti, legati – come detto anche in apertura – da un sottile filo rosso che li unisce.
Primo punto: il problema della “interpretazione della legge” tra “responsabilità sociale” del magistrato e la sua “sottoposizione alla legge” o, più in generale, la sua “imparzialità”.
Secondo punto: il problema della “credibilità” del magistrato, nell’ambito della più generale crisi reputazionale delle “istituzioni” nel rapporto le une con le altre e di fronte alla società.
Terzo punto: il necessario “dialogo” tra le istituzioni.
Il punto di partenza è il rapporto – divenuto cruciale nell’attualità – tra imparzialità e interpretazione. In effetti, oggi più che mai occorre forse leggere il principio di imparzialità nella prospettiva della interpretazione della legge.
Invero, proprio lungo questa linea che si sta sviluppando la odierna crisi tra politica e magistratura: la politica sembra accusare la magistratura di non essere imparziale nella interpretazione della legge – se non addirittura di ribellarsi ad essa attraverso interpretazioni “creative” – e la magistratura si vede attaccata e condizionata dalla politica nella sua libertà interpretativa, che è prima garanzia della sua imparzialità, da ultimo anche con riforme ordinamentali di respiro costituzionale.
Si tratta di tensioni che, in un certo senso, non possono stupire e che dipendono in larga parte da situazioni di contesto storico, nelle quali il mondo del diritto ha raggiunto livelli di complessità inimmaginabili.
L’individuazione della norma applicabile al caso concreto è sempre più incerta, non solo per una produzione legislativa, talvolta alluvionale e discontinua, ma anche perché le stesse fonti sono sempre più numerose e scarsamente coordinate, intersecandosi a diversi livelli (statale, internazionale e sovranazionale).
La stessa magistratura è costretta a muoversi tra diritto regionale, statale, convenzionale e dell’Unione europea, sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenze interpretative della Corte costituzionale, che è sempre più complesso riportare ad unità e ad applicazioni prevedibili.
Ciò incoraggia inevitabilmente un certo attivismo giudiziario e rende sempre più sfumati i confini tra i poteri, ciascuno dei quali è dunque alla costante ricerca di riequilibri.
Lo svilupparsi di tensioni non può dunque costituire una sorpresa perché – come già Montesquieu aveva osservato – chiunque abbia poteri è portato ad abusarne e ci vuole sempre un potere che arresti l’altro potere.
Eppure, non bisognerebbe mai dimenticare che la questione del “riassetto dei poteri” in nuovi equilibri non è perfettamente coincidente con il tema della “giustizia”, intesa come “servizio” funzionale alla tutela dei diritti delle persone.
È invece il tema della “giustizia” – e dunque delle “persone” – che dovrebbe essere sempre messo al centro, non quello del “potere”. In questo senso, la testimonianza di Livatino ha molto da insegnarci.
Dunque, per servire al meglio i cittadini occorre dialogare, occorre che le istituzioni dialoghino: è necessario che magistratura e politica dialoghino in modo costruttivo, nell’interesse superiore dei cittadini.
Perché ciò avvenga, potrebbe essere opportuno ripensare in modo originale il rapporto imparzialità/interpretazione, partendo da alcune considerazioni, la prima delle quali – vale per i magistrati – è che imparziali non si nasce, ma si diventa; l’imparzialità non è uno “stato”, bensì un “processo”; è una qualità che deve essere “allenata” e perfezionata nell’interazione di tutti i soggetti coinvolti (politica e magistratura).
Da un lato, dunque, la magistratura non deve vedere l’imparzialità solo come un proprio “diritto”, ma deve intenderla anche come un proprio “dovere”: il dovere di essere e anche di “apparire” – è sempre Livatino a ricordarcelo – imparziali nella interpretazione.
Questa “apparenza di imparzialità” – è bene ricordarlo – è una richiesta della giurisprudenza costituzionale e sovra-nazionale; apparire imparziali nella interpretazione – cioè, essere percepiti come imparziali da tutti – significa essere “autorevoli” nell’interpretazione, per dirla nei termini di Livatino occorre essere “credibili”.
Per essere credibili bisogna essere ed apparire impermeabili alle influenze esterne, siano esse ideologiche e generali o personali e particolari (come aspettative di vantaggi o timore di pregiudizi): questa impermeabilità deve considerarsi costitutiva dell’essere magistrato e, invero, dello stesso essere “uomini liberi”.
L’“autorevolezza-credibilità” dipende certamente da alcuni fattori particolari, quali la preparazione tecnica dell’interprete; la solidità e accettabilità degli argomenti utilizzati, ciò che si perfeziona anche con l’“esperienza” accumulata nell’esercizio delle funzioni, che migliorano la comprensione dell’uomo e aiutano a diventare, come voleva Livatino, “person[e] comprensiv[e] ed uman[e], capac[i] di condannare, ma anche di capire”.
Bisogna sempre ricordare, infatti, che il diritto naturale non conferisce il potere in capo ad un uomo a ad una donna di giudicare un altro uomo o un’altra donna. Come diceva Umberto Eco, il magistrato deve mantenere lo stupore e la fame di conoscenza. Solo così può comprendere l’umanità che sempre si nasconde dietro un caso concreto. Solo così potranno essere prese decisioni giuste, coltivando la cultura del dubbio: ogni persona che viene giudicata ha una storia degna di essere compresa, qualcosa da spiegare e per un giudice qualcosa da capire.
Solo in questo modo le decisioni avranno la capacità di stabilizzarsi nella giurisprudenza, di imporsi e mantenersi nel tempo tra gli stessi magistrati; tutto ciò costituisce l’indice più evidente dell’autorevolezza interpretativa – e, quindi, della credibilità della magistratura secondo la terminologia usata da Livatino.
Perché ciò avvenga è però necessario, come lo stesso Livatino aveva ben presente, che tutti gli attori istituzionali cooperino affinché questo risultato possa essere raggiunto.
In particolare, occorre che la politica assicuri le condizioni di possibilità dell’imparzialità nell’interpretazione e che assuma questa necessità come un suo specifico dovere costituzionale.
Questa responsabilità della politica nel garantire la possibilità dell’imparzialità si realizza, prima di tutto, attraverso una tecnica legislativa adeguata. Bisogna che il legislatore eviti formulazioni generiche (tali da delegare sostanzialmente al magistrato scelte assiologiche che la politica non è in grado o non vuole compiere); bisogna che venga adottato un modo di legiferare che tenga conto del sistema in cui gli interventi normativi si inseriscono (con la conseguente necessità di rispetto dei diritti fondamentali stabiliti dalla Costituzione, dalla CEDU e dal diritto dell’UE), in modo da diminuire al massimo il possibile contrasto tra fonti legislative e Costituzionali, nonché tra ordinamento interno e ordinamenti sovranazionali, con tutte le ricadute in termini di complessità del sistema e di imprevedibilità delle decisioni, che ciò comporta. Occorre insomma che venga adottato un modo di normare che si faccia carico delle esigenze di stabilità e prevedibilità della disciplina introdotta, evitando un caotico e alluvionale succedersi di leggi, contenenti discipline spesso tra loro in contraddizione.
Ma la responsabilità della politica si gioca anche su un altro piano, quello di una modalità d’azione che si faccia carico dei compiti che la Costituzione gli assegna ai sensi dell’art. 110 Cost. e che garantisca, dunque, le risorse necessarie al servizio giustizia.
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Solo in questa reciproca comprensione – da parte della politica e della magistratura – dei rispettivi compiti nell’assicurare l’imparzialità, si può arrivare a soluzioni che tengano realmente conto del bene di coloro ai quali il servizio giustizia è destinato e solo in questo modo, come voleva Livatino, il diritto può essere recuperato come “riferimento unitario della convivenza collettiva”. Questo recupero del “senso delle istituzioni” – inteso come consapevolezza dei limiti del ruolo assegnato a ciascuno e del rispetto che ciascun potere deve avere dell’altro, nella prospettiva non del vantaggio personale o di un gruppo, ma di tutti i cittadini – sembra un compito difficile alla luce dei tanti casi, anche recenti, che sembrano smentirlo.
Occorre tuttavia che le difficoltà e i fallimenti – che fanno parte della limitatezza creaturale dell’umano – non ci facciano desistere da questo alto compito, perché è anch’esso parte dell’umanità di ciascuno e, quindi, è alla nostra piena portata: l’esempio e la testimonianza di Livatino sono lì a dimostrarcelo. Le mani assassine, che volevano interromperne il percorso, non sono infatti riuscite a spegnerne la voce, che invece, ancora oggi, parla a ciascuno di noi con ancora più forza, proprio alla luce del sacrificio estremo che lo ha reso per questo, ancora più “credibile”, per usare il termine a lui caro: ha reso più “credibile” il modello di magistrato che ha proposto e che ha incarnato nella sua vita.
“La mafia non è affatto invincibile”, diceva Giovanni Falcone. “È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e si può vincere non pretendendo eroismo, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”.
Il nostro passato è ricco del sacrificio estremo di un numero elevatissimo di magistrati – ben 27, tra i quali lo stesso Livatino, uccisi della criminalità, dalle mafie e da gruppi terroristici di destra e di sinistra – ma anche di persone del mondo politico-istituzionale (ricordo gli omicidi di Aldo Moro, Piersanti Mattarella, Vittorio Bachelet): persone che avevano colto il termine “essenziale” nel suo significato più profondo, si erano aperti alla fede e avevano e avevano compreso cosa potesse voler dire sostituire l’odio con l’amore, la vendetta con il perdono, l’individualismo con la solidarietà, la violenza con la misericordia, come insegnava Giovanni Paolo II.
Ciascuno di loro rappresenta la fotografia del sacrificio di una persona per lo Stato, la dimostrazione che la democrazia non è gratis, non si trova in natura, ma occorre lottare e sacrificarsi perché essa possa affermarsi.
Vittorio Bachelet, Rosario Livatino, Piersanti Mattarella e Aldo Moro, tutti credibili e tutti “uomini liberi”: un grande lascito il loro, che ci spinge a non desistere dalla ricerca dell’essenziale.