Gabriele mi viene a trovare, a più di un mese dalla maturità e a pochi giorni da un esame di ammissione alla facoltà di lettere. Parliamo di Dante a ruota libera, ma poi fatalmente si va a finire sul recente esame di Stato, da lui superato brillantemente e con ottimo punteggio. A un certo punto mi fa una considerazione che si chiude con una di quelle domande che da sole aprono un mondo: “Cinque anni di scuola e alla fine quel voto freddo, che già non vale più niente. Avrei voluto altro. Avrei voluto sapere che ne pensavano di me i miei professori. Alle medie avevo in mano un giudizio scritto, qualcosa che mi faceva capire. Oggi mi chiedo: chi sono stato io per i miei docenti?”.
Gabriele è uno che fa domande così profonde perché in questi cinque anni ha capito chi è, ha maturato una vocazione di vita. Ha fatto una scelta importante, lui, figlio di medico, che si era iscritto a un liceo classico con curvatura biomedica. Qualcuno, forse in parte anche io stesso, l’ha accompagnato in questo processo di maturazione e ora è pronto per seguire il suo destino. Questa sua domanda è davvero importante perché ci ricorda che l’educazione è una relazione e che il docente non è solo un dispensatore di nozioni, tecniche, competenze, ma in primis a una persona nel confronto con la quale un giovane cresce, riflette, capisce, matura. Voglio sapere chi sono stato io per i miei docenti! Si può esprimere meglio di così?
Da tempo rifletto sulla definizione dell’esame di Stato come rito di passaggio. È una riflessione che dura da tanto e che ho già fatto anni fa anche su queste colonne. Resto dell’opinione che chi adatta questa definizione all’attuale esame non sa proprio quello che dice, o ripete senza pensare qualcosa che non sta né in cielo né in terra.
Ricordo di aver visto al cinema da ragazzino il celebre Un uomo chiamato cavallo. Di quel film ho in mente solo vagamente la sequenza del rito di passaggio: i preparativi lunghi e faticosi, la tensione e la paura del protagonista, la sua solitudine davanti alla prova e poi la durezza tremenda della prova stessa. Ma anche la gioia finale nell’averla superata, il senso di identità che ne segue, la soddisfazione umana di stare dentro una comunità accogliente e di cominciare un nuovo cammino.
Del rito di passaggio o d’iniziazione ho trovato un’altra bella immagine artistica nel Mondo nuovo di Aldous Huxley, quando il personaggio del Selvaggio racconta la propria esperienza: il suo profondo desiderio di diventare adulto e di essere accolto come tale nella sua comunità; la volontà di dimostrare quello che è di fronte agli altri; la sua fatica, la sua paura, la sua solitudine. Il rito viene presentato in quel romanzo come un’esperienza esistenziale e fondamentale, che ha fatto scoprire tre dimensioni assolute: il Tempo, l’Amore, Dio.
Un rito di passaggio ha delle caratteristiche precise, studiate dagli storici delle religioni. A me interessa evidenziare alcune di esse: avviene dentro una comunità, con delle figure autorevoli che ti preparano a viverlo; è accompagnato da una riflessione profonda su di sé e sui fondamenti della vita (tempo/morte, amore, Dio); chi lo compie è fisicamente solo e sostiene una prova estremamente impegnativa; al termine non vaga nel nulla, ma torna nuovo dentro la sua comunità, con uno status riconosciuto, inaugurando un nuovo percorso di vita che ha desiderato, voluto, per il quale si è preparato e ha combattuto; il fallimento è previsto e anzi molto possibile, ma è nelle cose e non toglie la volontà di riprovare.
Ora forse si capirà come assegnare la pomposa definizione di rito di passaggio al nostro esamino di Stato sia una forzatura, una semplificazione assurda, una incosciente leggerezza. Mi ha fatto molto piacere trovare delle riflessioni in questo senso anche nel bellissimo Resisti, cuore di Alessandro D’Avenia: “Nella dimensione omerica i mutamenti sono quasi immediati, come avviene nei riti di passaggio di quella cultura: superato il rito il soggetto è nato, destinato, maturo”. Mi sembra che troppo spesso questi siano proprio i tre aggettivi che mancano ai soggetti che superano il nostro rito di passaggio. D’Avenia fa poi proprio una riflessione sulla scuola attuale, tutta improntata su binomio sapere-fare, e rileva che il nostro essere è piuttosto frutto del “binomio stare-comprendere: siamo al mondo come insieme di relazioni che ci pongono nella vita come figli, fratelli, sorelle, amici, mariti, mogli, discepoli, maestri… per poi affrontare la realtà. Un eroismo relazionale, in cui il destino emerge nelle e dalle relazioni”.
Stare e comprendere: è esattamente l’esito del rito di passaggio, che ti immette in una condizione che in qualche modo hai cominciato a capire. E poi eroismo relazionale… mi piace questa definizione, che mette insieme la serietà di una prova eroica, di un atteggiamento eroico davanti a una sfida davvero importante, e l’aspetto relazionale, garanzia di quella comprensione. Ci si comprende dentro una relazione e il fine è appunto che io capisca qualcosa di più di me, per stare più dentro alla mia realtà e al destino che mi aspetta.
E allora, in modo penoso, tornano alla mente le approssimazioni, le forzature, le facilitazioni, i buffi o irritanti compromessi, il disamore verso il nostro rito, la profonda incomprensione dello stesso da parte di tutti, docenti, studenti, loro famiglie. Ti viene da pensare alle proteste e ai ricorsi indignati sul voto finale, a questo rito che non è più nemmeno condiviso, che è un po’ subìto da tutti e quindi che è profondamente insensato, ma che soprattutto non provoca troppo spesso proprio quel passaggio che è nella definizione che gli viene affibbiata.
Torna e resta, disarmante, profonda e un po’ triste, la domanda di Gabriele e quel suo bisogno di capire (in lui che comunque ha capito molto) chi è stato per i suoi docenti nei cinque anni di liceo.
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