Prezzo dell’oro ieri mattina “poco mosso” sui mercati delle materie prime (informa l’Ansa): il metallo prezioso con consegna immediata (Gold spot) era scambiato a 2.516,79 dollari con un calo dello 0,05%, mentre l’oro con consegna a dicembre (Comex) è passato di mano a 2.549,70 dollari, con una flessione dello 0,22%. Il tutto mentre le borse europee chiudevano un inizio di settimana diverso rispetto ai rialzi dello scorso venerdì, quando i mercati potevano festeggiare un imminente taglio dei tassi annunciato dal presidente della FED Jerome Powell: Milano ha terminato a -0,13%, Francoforte a -0,09%, Madrid a -0,06%. A Wall Street ha vinto la cautela, ma le parole di Powell, intanto, si sono tradotte nel balzo dell’oro, arrivato ai massimi storici, oltre 2.500 dollari l’oncia, per una nuova febbre dell’oro che sta contagiando anche le banche centrali di Russia, Cina e Turchia, che hanno fatto scorta.
È noto come inflazione e oro abbiano posture siamesi, direttamente collegate: se la prima sale, la rincorsa all’accaparramento del secondo aumenta di conseguenza. Oro come bene rifugio per antonomasia, insomma, il metallo sul quale si fonda il sistema monetario mondiale, un bene strategico per ponderare la solidità economica degli Stati e garantire la loro solvibilità. Nonché, in Europa, assicurare la stabilità della moneta comunitaria.
In certi Paesi, la corsa all’oro dipende però anche da altri fattori. La Turchia rientra nel quadro iperinflattivo che soffoca molte altre nazioni (BRICS, fronte dei Paesi EMDE): lo scorso luglio l’inflazione ha toccato il 62%, spingendo moltissimi operatori all’acquisto di oro anche trasformato o lavorato in gioielleria, con soddisfazione per i distretti italiani che la esportano. Ma la Turchia, insieme alla Russia e alla Cina, pur restando inserita nel Patto atlantico e nell’anticamera dell’ingresso nell’UE, accarezza anche la possibilità di affrancarsi dall’economia del dollaro (quasi il 60% delle riserve valutarie globali è ancora detenuto in dollari), al pari di altri Paesi dove le divergenze di politica monetaria tra FED e banche centrali (anche di economie avanzate) hanno alimentato la volatilità dei tassi di cambio.
Adesso, le nuove tensioni geopolitiche stanno facendo riflettere se il conio USA sia ancora in grado di assolvere al suo tradizionale ruolo di moneta di riferimento globale, tra indebolimento dell’economia, aumento della disoccupazione, esplosione del debito pubblico e dubbi sul futuro della White House. In queste incertezze l’oro resta ancora un salvagente sicuro. Peter Schiff, il Goldfinger economista americano e grande gold supporter, ha sottolineato la picchiata dell’indice del dollaro USA, in una crisi che rischia di mettere in ginocchio l’economia mondiale, innalzare i prezzi al consumo, spingere il prezzo dell’oro, ma anche costringendo all’aumento dei long term rates. Sono vaticini apocalittici che ciclicamente si ripetono. Nel frattempo, però, la Russia sta riposizionando il suo commercio con la Cina sempre più nel renminbi cinese. Stessa strada per il Brasile, ma perfino l’Arabia Saudita, storico Paese nell’emisfero d’influenza USA, ha cominciato a fatturare in renminbi l’export petrolifero verso Pechino.
In questi scenari, una sola consolazione: l’Italia, gli Usa e la Germania sono i Paesi che vantano le riserve auree più consistenti.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.