È di pochi giorni fa la notizia dello studio della CGIA Mestre che rende pubblica la previsione di come in alcune aree del Mezzogiorno, in pochi anni, verranno pagate più pensioni che stipendi: lo studio, che si riferisce agli ultimi dati disponibili, cioè relativi al 2022, si limita ad osservare il trend dell’uscita dal mercato del lavoro di un numero consistente di persone che non viene però sostituito da una altrettanto massiccia forza lavoro. Alcune province sono “colpite” dal fenomeno già nel 2022, come ad esempio Lecce, Napoli, Messina, Reggio Calabria e Palermo, con un saldo negativo tra occupati e pensioni erogate: “Va segnalato che l’elevato numero di assegni erogati nel Sud e nelle Isole non è ascrivibile alla eccessiva presenza delle pensioni di vecchiaia/anticipate, ma, invece, all’elevata diffusione dei trattamenti sociali o di inabilità. Un risultato preoccupante che dimostra con tutta la sua evidenza gli effetti provocati in questi ultimi decenni da quattro fenomeni strettamente correlati fra di loro: la denatalità, il progressivo invecchiamento della popolazione, un tasso di occupazione molto inferiore alla media UE e la presenza di troppi lavoratori irregolari” (CGIA Mestre).
Come è facilmente intuibile, quello che viene previsto solo per alcune aree del Mezzogiorno è il destino, più che mai concreto, di tutta la Nazione. La questione della scarsa occupazione e quella del lavoro povero sono certamente cause di mancato sviluppo di tutto il Paese, sia in termini prettamente economici ma anche sociali: la povertà diffusa (8,5% delle famiglie presenti in Italia) è a sua volta una conseguenza di tutto ciò.
L’altra grande tematica accennata è relativa all’incidenza demografica: è evidente che se i nuovi lavoratori diminuiscono e la longevità aumenta, ci saranno sempre meno persone che pagheranno le pensioni degli anziani, andando a creare una stortura che inciderà su produttività, ricchezza, politiche economiche e politiche lavorative (giusto per citare alcuni macro-tematiche, ma si potrebbe andare avanti). La questione demografica si accompagna a sua volta al tema della ricchezza, delle politiche familiari e anche al bilancio dello Stato: “L’alto debito sta gravando sul futuro delle giovani generazioni, limitando le loro opportunità”(Panetta, Meeting di Rimini), sia in termini di istruzione che in termini di potere d’acquisto (basti pensare al fatto che l’imposta sul valore aggiunto – IVA – è oggi al 22% anche per l’enorme debito pubblico e la spesa sui tassi d’interesse dello Stato; di fatto l’IVA riduce il potere del consumatore sull’acquisto di determinate categorie di beni).
Pur non negando l’importanza dei flussi migratori non solo per una questione demografica ma anche lavorativa, le soluzioni da proporre non possono essere relative solo al contingente ma devono avere un respiro di anni. Da questo punto di vista devono far riflettere le parole del Governatore della Banca d’Italia Panetta, che ha parlato di un’Europa che deve “conseguire una crescita sostenuta e inclusiva come condizione per il bene comune e la concordia”, senza dimenticare il contributo che ha da offrire l’Italia, impegnata ad “affrontare le debolezze strutturali, ridurre il debito pubblico e promuovere una crescita elevata che non solo rafforzerà la nostra economia, ma contribuirà anche alla solidità dell’intera Unione europea”.
Serve allora agire, da una parte, sulle politiche del lavoro e, dall’altra, su quelle familiari per una ripresa demografica ormai non più rinviabile. Non solo, la situazione italiana, unita a vincoli sovranazionali europei sia politici che monetari, rende necessaria una seria integrazione europea. Questa può essere certamente una soluzione per tante delle questioni molto brevemente accennate, a patto che tale integrazione si rifaccia allo spirito dei padri fondatori e non alle articolazioni burocratiche e farraginose che sembrano essersi impossessate del sogno europeo, come la vicenda dell’assegno unico ha in parte dimostrato.
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