Guerre commerciali e lotta climatica. I veicoli elettrici stanno scatenando tra Europa e Cina una strana tenzone. Da un lato, parte dell’industria automotive europea si oppone all’aumento dei dazi sui veicoli elettrici Made in China in programma dall’Unione, mentre – sorprendentemente – gli ambientalisti sono invece favorevoli. L’anno scorso un quinto delle automobili elettriche vendute in Europa erano cinesi e nel 2024 la quota salirà al 25%. Mentre l’intero comparto automotive europeo è in sofferenza, rispetto al 2019 si produce il 22% di veicoli in meno. Nel confronto con l’elettrico la Cina vince a man bassa. La compatta elettrica cinese, BYD Seagull, in arrivo sui mercati europei a partire da 12mila euro, ha una qualità di finiture, dotazioni e prestazioni che sbaragliano quelle della Dacia Spring, la più economica utilitaria europea in listino a 17.900 euro.
L’ambizione dell’Unione Europea è di triplicare entro il 2030 il numero di automobili elettriche in circolazione sulle strade del Vecchio Continente. Attualmente sono nell’ordine di 12 milioni. Nei primi sei mesi del 2024 le vendite di auto hanno toccato 4,6 milioni, ma i modelli elettrici rappresentano ancora solo il 12,6%. Il loro costo elevato è il principale ostacolo alla loro penetrazione. Ragionevolmente, per contenere il prezzo finale delle autovetture green ci si aspetterebbe una forte opposizione dei movimenti ambientalisti e partiti verdi ai previsti dazi ipotizzati dalla Commissione. Invece, preoccupati che si riproponga lo scenario industriale dei pannelli fotovoltaici dove la manifattura europea è stata spazzata via dalla concorrenza cinese fortemente sostenuta da aiuti di Stato, non solo il fronte verde non si oppone alle barriere doganali, anzi, le invoca.
Lo fa in nome del Green Deal, ribattezzato New Clean Industrial Deal dalla Commissione von der Leyen 2 consapevole della preoccupazione dell’opinione pubblica per la desertificazione industriale perseguita dalle politiche climatiche eccessivamente ideologiche della precedente consiliatura. L’assenza di un rialzo dei dazi sulle auto cinesi vendute in Unione Europea, principale mercato di sbocco dell’export cinese, determina un’insostenibile pressione sull’industria europea falcidiando l’occupazione. Un assaggio della possibile ecatombe sono i tagli di personale annunciati in questi giorni da Volkswagen, Renault e Stellantis.
Al termine di un’indagine che ha rivelato che l’industria automobilistica cinese beneficia di prestiti a tasso preferenziale, sgravi fiscali, sovvenzioni dirette e fornitura a prezzi ridotti di litio e batterie, la Commissione europea sta studiando un aumento degli attuali dazi del 10% che verrebbero appesantiti tra il 17,1% e il 38,1%. A beneficiare di questi sostegni non solo marchi cinesi come BYD, Geely, SAIC, ma anche aziende come BMW e Tesla, con impianti di produzione in Cina.
Da luglio sono in corso negoziati serrati tra i rappresentanti della Commissione e rappresentanti del governo di Pechino. L’arma dei dazi è comunque spuntata, perché nonostante questi rincari, le elettriche cinesi risulterebbero ancora competitive rispetto ai marchi EV europei. Tuttavia, la Cina deve in tutti modi sostenere un surplus della sua bilancia commerciale e si dichiara pronta, in caso di rinuncia agli extra dazi europei, a tagliare le imposte sulle auto di grossa cilindrata europee vendute sul mercato interno. Oppure, in misura speculare ritorsiva, ad aumentare più che proporzionalmente i dazi sulle automobili endotermiche importate in Cina.
Pertanto i produttori tedeschi, agitati dalla prospettiva di perdere margini sul lucroso mercato cinese (nel 2021 ha portato nei bilanci profitti per 30 miliardi di dollari), in nome dell’economia di mercato e del libero scambio criticano lo strumento dei dazi come una leva destabilizzante e dannosa per le aziende e gli interessi materiali dei consumatori europei. Ironicamente si trovano accomunati alle posizioni dei cinesi in opposizione alla Commissione e ai produttori francesi e italiani. Parallelamente gli ambientalisti, alla luce dei deludenti risultati alle ultime elezioni europee, hanno colto che nonostante l’innegabile necessità di accelerare la decarbonizzazione, l’opinione pubblica non è più pronta ad ingoiare qualsiasi misura di politica climatica. Ora la parola d’ordine è che le politiche green non possono prescindere dalla sicurezza energetica e dalla modernizzazione economica. Ovvero lavoro e crescita.
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