Ha destato scalpore la comunicazione di Volkswagen rispetto all’intenzione di chiudere alcuni stabilimenti in Germania. Sarebbe la prima volta che accade in 87 anni di storia. La madrepatria era sempre stata risparmiata dalle razionalizzazioni dei costi. Stavolta no. Stavolta siamo all’estremo sacrificio. E in un contesto politico-economico interno che definire delicato equivale all’utilizzo di un garbato eufemismo. Chiaramente, la colpa di quanto potrebbe accadere non è di oggi. Né di ieri. Ma il fatto che si voglia andare indietro al Dieselgate – di fatto, mossa statunitense per azzoppare un concorrente globale, stante il così fan tutti sulle emissioni vigente dell’epoca – per trovare le radici del male significa raccontare una realtà che è narrazione. L’80% abbondante di responsabilità per quanto comunicato da VW sta nell’abbinata sanzioni-green. Sta tutta lì. Perché accoppiare un regime di bandi e veti commerciali, finanziari ed economici verso il fornitore principale di energia a basso costo – la Russia – a un’agenda europea di distruzione totale del comparto automotive in nome della sostenibilità, equivale a voler sancire l’ingresso nella fase terminale della de-industrializzazione.
E guardate questo grafico, se pensate che il sottoscritto esageri:
compara l’andamento della produzione industriale di Italia e Germania. Ora, prendiamo il post-Covid come punto 0 di riferimento e guardate un po’ dove si sta andando. A precipizio. E questo nonostante un diluvio di miliardi di sostegni e sussidi, formalmente indirizzati da governi e Banche centrali per sostenere l’economia e la sua ripresa dopo lo shock della pandemia. Davvero? No. O almeno, solo in parte. Perché la Germania rappresenta l’esempio classico di come solo le politiche nazionali abbiano fatto qualcosa per imprese e cittadini, basti vedere la nazionalizzazione di Uniper per evitare il default della utility energetica e il piano da 200 miliardi messo in campo per tamponare il caro-energia e il suo fallout. E i soldi delle Banche centrali, i soldi della BCE, dove sono andati? Qui:
Perché mentre gli indicatori macro dell’economia tedesca come ZEW e IFO ormai da trimestri gridano recessione e anticipano palesemente quella che ora appare la decisione inaspettata e sconvolgente di Volkswagen, l’indice della Borsa di Francoforte prosegue senza sosta la sua corsa. Totalmente disconnessi. Da un lato l’economia reale, dall’altro la finanza. In mezzo, il settore bancario. Sempre più strategico. Ma anche sempre più fragile ed esposto al leverage.
Ora date un’occhiata a questo link, preso dalla versione online del quotidiano tedesco Die Zeit, il più autorevole insieme alla FAZ. Pubblico volutamente il link originale e non lo screenshot della versione in inglese. Tanto per evitare che qualche debunker si ringalluzzisca. Tanto Google translate è a disposizione di tutti. Signore e signori, la chimera dell’indipendenza energetica da Mosca grazie al gas liquefatto statunitense è ufficialmente sparita. Puff. Mentre l’autunno si avvicina, ecco che la narrativa si allontana. L’Europa dipende ancora da Gazprom. E quanto avvenuto nelle ultime tre settimane a livello di peggioramento dei rapporti fra UE e Russia non depone certamente a favore di una stagione fredda tranquilla e di bollette che restino in regime di prezzo calmierato. Né, tantomeno, di un booster per la produzione industriale più energivora.
In Germania il Re è nudo. Le elezioni amministrative e i loro esiti hanno imposto un repentino ritorno alla realtà, a partire dal tema immigrazione. E il fatto che Die Zeit abbia pubblicato quella notizia domenica 1° settembre, ovvero il giorno del voto in Sassonia e Turingia, fa pensare che qualche indeciso potrebbe aver rotto gli indugi. E si sia recato alle urne per votare AfD o i tanto temuti rossobruni di BSW. Qui non si tratta di nostalgia del Reich o della DDR. Non si tratta di estremismo. Si tratta di buonsenso. E istinto di sopravvivenza.
Riprendete quel grafico sulla produzione industriale. E mettetelo accanto a quello che ho pubblicato nel mio articolo di ieri, rispetto al calo di competitività industriale europea dal 2000 a oggi nei confronti di USA e Cina. Sta tutto lì. Inutile scomodare il Dieselgate. La questione è una sola: l’Europa ha scelto la decrescita felice. Anzi, si è fatta imporre la decrescita felice dai suoi concorrenti attraverso agende di sostenibilità ambientale totalmente insostenibili e sanzioni a dir poco autolesionistiche verso il fornitore di energia a basso costo che ancora ci permetteva di operare su margini sempre più risicati.
Ci piace morire poveri ma politicamente corretti e ben voluti dal padrone d’Oltreoceano? Basta dirlo. Essere onesti con noi stessi. E questo vale anche e soprattutto per la classe politica. E il 90% dei media. Io no, però.
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