Principesse emancipate che sposano gli orchi; prìncipi inetti e pusillanimi, considerati anche molestatori se baciano la Bella addormentata; esistenza del male edulcorata; punizione dei malvagi censurata; nani trasformati in “figure di diversa statura ed etnia”… ecco, se non ne potete più di tutto l’onnipresente armamentario politicamente corretto e cercate una boccata d’aria pura, uno tra i rimedi possibili è senz’altro il ritorno allo straordinario patrimonio folclorico tedesco così come ci è stato trasmesso dai fratelli Grimm. Una splendida occasione per riprendere in mano le “fiabe del focolare” è ora offerta dal libro di Giuseppe Reguzzoni, Il risveglio di Rosaspina. Una prospettiva sulle Fiabe dei Grimm (Marcianum Press, 2024), che ne può rappresentare, di fatto, una dotta e intelligente introduzione e insieme un invito alla lettura.
Jacob (1785-1863) e Wilhelm (1786-1859) Grimm, originari di una cittadina vicino a Francoforte, appartenevano a una famiglia borghese molto radicata nel protestantesimo di stampo calvinista. Filologi, linguisti e bibliotecari, i due concepirono la raccolta delle Fiabe all’inizio soprattutto come “un progetto linguistico di ricerca sulle tradizioni orali presenti in Germania a livello di narrativa popolare” (p. 49). In questo senso, il lavoro sulle fiabe non si può scindere da quello per il Deutsches Wörterbuch, avviato dai Grimm negli anni Trenta dell’Ottocento (e concluso oltre un secolo più tardi), che costituisce una tappa fondamentale nella storia della lingua tedesca. Resisi conto che la cultura orale delle campagne tedesche stava vivendo probabilmente la sua ultima stagione, essi decisero di preservare questo originalissimo retaggio, trasmettendolo nella forma quanto più fedele possibile alle generazioni future.
L’opera dei Grimm risentiva, va da sé, del panorama intellettuale e politico della loro epoca: lo shock dell’occupazione napoleonica, il romanticismo, la reazione al razionalismo illuminista, il vagheggiamento di una cultura nazionale tedesca per una nuova Germania unita… vengono in mente le parole scelte come motto dei Monumenta Germaniae Historica, nati nel medesimo contesto: Sanctus amor patriae dat animum. Anche il ruolo dei Grimm nella genesi delle Fiabe, che ebbero numerose edizioni dal 1812 al 1857, è da sempre discusso: vanno considerati semplici “raccoglitori” o non piuttosto veri autori? La risposta non è semplice; essi, infatti, intesero mostrarsi come coloro che avevano messo in salvo un’eredità antichissima e molto stratificata (elementi di origine precristiana, apporto cristiano e medievale, influenze letterarie) senza mai adattarla ai gusti contemporanei, ma nella fedeltà alla sua connotazione orale e popolare; ciò non toglie che, in una così lunga gestazione, un’opera di rielaborazione sia stata effettivamente messa in atto.
“La scrittura delle Fiabe, ovvero il loro passaggio dalle tradizioni orali a quelle letterarie, avvenne nel lungo periodo storico delle secolarizzazioni, che vide il tramonto di un mondo incantato in direzione di quello disincantato che è proprio della nostra civiltà occidentale contemporanea”. Il disincantamento porta con sé uno sguardo diverso sulla realtà, ora ridotta alla sua dimensione esteriore e materiale (p. 45). In questo senso, per l’uomo contemporaneo le Fiabe dei Grimm non hanno perso nulla della loro potenza evocativa e restano capaci di accompagnare il lettore in una foresta incantata fatta di simboli e di archetipi eterni.
Se l’autore è convincente nel mostrare gli elementi cristiani presenti, in diversa maniera, nella stratificazione delle fiabe, uno degli elementi di primo piano, che si impone per la sua continua presenza, è quello della concezione del male. Senza negare il possibile apporto della psicologia del profondo all’interpretazione dei racconti tradizionali, Reguzzoni sottolinea che in essi il male non può assolutamente essere considerato solo una fase del sé nel suo divenire o un “lato ombra” col quale armonicamente ricongiungersi; di conseguenza, la salvezza non è un equilibrio che la psiche conquista da sé, ma proviene da qualcosa di Altro “che solleva dalla palude della prigionia in se stessi” (p. 89).
Sed libera nos a malo: la conclusione felice, l’eucatastrofe, per dirla con Tolkien, nelle Fiabe passa attraverso una sconfitta del male e dei suoi emissari che dev’essere assoluta. Proprio la rappresentazione spesso cruda e anche violenta del male (e del dolore), da un lato, e la spietata punizione inflitta ai malvagi, dall’altro, sono tra quegli aspetti divenuti inaccettabili nell’Occidente contemporaneo. Eppure, si può dire tranquillamente che senza il confronto col male, raffigurato anche in forme brutali, non avremmo la fiaba.
Insomma, per quanto ciò possa risultare orribile per un delicato stomaco woke, non è sufficiente il lieto fine delle nozze tra il principe e Biancaneve, ma la matrigna cattiva deve andare incontro a una punizione atroce… come le tante streghe bruciate, a partire da quella di Hänsel e Gretel arsa nel forno, o come le sorellastre di Cenerentola accecate. I tre nani che incontrano nel bosco la povera fanciulla destinata alla morte dalla matrigna e la soccorrono, colmandola di doni, non hanno alcuna esitazione circa il comportamento da tenere con la sorellastra: “Che cosa dobbiamo regalarle, poiché è così scortese e ha un cuore cattivo e invidioso, senza carità? Il primo disse: Che diventi ogni giorno più brutta. Il secondo disse: Che le esca di bocca un rospo a ogni parola che dice. Il terzo disse: Che muoia di mala morte”.
Con ciò, non si vuole affatto ridurre le Fiabe a una dimensione biecamente moralistica: se in esse il bene e il male si affrontano senza posa, ugualmente decisivo è “il senso del mistero, dell’incanto che le pervade e che, alla fine, dà il suo significato autentico anche alla virtù” (p. 117), in un mondo nel quale i protagonisti si muovono nella consapevolezza di un orizzonte che supera infinitamente quello materiale, e nel quale i confini tra il terreno e il numinoso non sono rigidi, ma pieni di passaggi, come la fontana di Frau Holle.
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