Il caso Sangiuliano è ufficialmente chiuso, almeno per ora, ma per Giorgia Meloni restano i problemi politici, e sono problemi grandi come una casa. Perché il governo continua a traballare intorno ad alcuni ministri che continuano ad incappare in figuracce, quando non vere e proprie inchieste giudiziarie.
Se la premier ha deciso di salvare il soldato Genny non è perché lo ami alla follia, ma per non smentirsi e salvare prima di tutto se stessa. Lo ha convocato a Palazzo Chigi d’urgenza, gli ha pure fatto fare un po’ di anticamera, poi lo ha ricevuto, e gli ha chiesto la massima chiarezza. Lunedì sera lo aveva difeso in tv, con parole pesate: “il ministro mi ha garantito” che la signora Maria Rosaria Boccia da Pompei non solo non ha avuto accesso ai documenti riservati sul G7 della cultura, ma neppure era stata beneficiaria di qualsivoglia esborso da parte del ministero. Visto che però sui social la signora aveva insistito, Meloni ha chiesto a brutto muso al suo ministro se dovesse attendersi altre sorprese. Praticamente se fosse o meno ricattabile.
Un ministro ricattabile non può stare al suo posto, ma Gennaro Sangiuliano ha ribadito, carte alla mano, che tutto corrisponde alle sue dichiarazioni. Se Meloni ha scelto di credergli è prima di tutto per salvare la propria faccia. C’è il G7 della cultura fra meno di venti giorni, sarebbe un pessimo biglietto da visita un ministro fresco di nomina. Poi, certo, Sangiuliano è stato salvato anche per non darla vinta alle opposizioni, con la speranza che la faccenda si sgonfi. Senza però nascondere la delusione per una destra che con le gaffes del ministro si è dimostrata incapace di smentire la presunta “superiorità culturale della sinistra” che dall’opposizione lei stessa aveva sempre contestato. La rabbia della premier è rimasta però confinata nello studio del presidente del Consiglio, con la consapevolezza di dover presto fare i conti con altri ministri “zoppicanti”.
C’è Raffaele Fitto da sostituire, perché in partenza per Bruxelles, anche se il problema si porrà fra un paio di mesi: ogni commissario deve essere vagliato e confermato dal Parlamento europeo, dare le dimissioni da ministro in anticipo sarebbe sciocco. Il governo von der Leyen 2 entrerà ufficialmente in carica solo il prossimo 1° dicembre.
Da qui ad allora ci sarà tempo per decidere come gestire le quattro deleghe del super ministro, Europa, PNRR, Coesione e Sud. E la decisione incrocerà il possibile rinvio a giudizio della titolare del Turismo, Daniela Santanchè, accusata di truffa aggravata e falso in bilancio. La attendono due udienze a ottobre, la prima il giorno 9. Di fronte alla prospettiva di un processo la premier dovrebbe smuoversi dal suo proposito di arrivare a fine legislatura con la stessa squadra di di governo dell’inizio. Un’impresa mai riuscita a nessuno in epoca repubblicana, neppure agli unici due premier che sono rimasti in carica per tutto il quinquennio, De Gasperi e Berlusconi.
Alla parola “rimpasto”, un classico della “prima repubblica”, la Meloni ha sempre opposto un secco no: troppo grande il timore di scoperchiare il vaso di Pandora degli appetiti fra i rissosi alleati che si ritrova, e di non avere più la forza politica di risolvere una crisi lampo, arrivando al Meloni bis. Il Quirinale è il problema minore, anche se certo, qualora si dovesse sostituire contemporaneamente più di un ministro, Mattarella solleciterebbe un ritorno alle Camere per confermare la fiducia. Per di più, di componenti del governo sotto la sufficienza ce ne sono diversi, a cominciare dal titolare dell’Agricoltura Lollobrigida, lento nella risposta all’emergenza della peste suina e indebolito dalla fine della storia con Arianna Meloni.
La caratteristica che unisce tutti i nomi sotto osservazione è di essere espressione del partito della premier. Emerge, insomma, un preoccupante deficit di classe dirigente, che ha pure l’effetto collaterale di restringere il numero delle possibili alternative ai ministri in carica. Meloni è quindi costretta, finché possibile, a fare fuoco con la legna che ha, anche se non di qualità eccelsa. Avanti per assenza di alternative, sperando che la barca del governo non sia investita da altre cannonate.
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