Non è possibile tracciare qui una storia (apparentemente breve) dell’autonomia scolastica. Lasciamo volentieri questo impegno ai navigatori esperti delle procellose vicende della scuola italiana. Non possiamo però evitare di far riferimento alle due forze che in costante e per lo più in silenzioso, ma ostinato conflitto fra loro hanno agito sullo sfondo delle vicende culturali e politiche nazionali degli ultimi trent’anni.
Da un lato la visione educativa, pedagogica, direi perfino “profetica” di molte componenti culturali e politiche, che nella concretezza della realtà si sono incarnate prevalentemente nelle figure cosiddette “tecniche” del sistema scolastico (ispettori, presidi, docenti e ricercatori degli istituti regionali di ricerca ora aboliti); dall’altro la preoccupazione, direi perfino l’inquieta e tormentata ansia di perdere il controllo della macchina burocratica, vissuta dalle figure “amministrative” del sistema (direttori generali, dirigenti, funzionari del ministero e provveditori). Due anime che hanno lottato fra loro fino al punto quasi di divorarsi, pur di non perdere la leadership interna di una gestione molto a lungo lasciata a se stessa dal sistema politico (talvolta per debolezza, talaltra per consapevole e voluta condivisione).
Va inoltre ricordato che tutti i processi di innovazione e cambiamento degli ultimi quarant’anni sono avvenuti sullo sfondo del gigantesco e disordinato groviglio delle “sperimentazioni”. Fenomeno del quale ormai pochi hanno consapevolezza (talvolta, struggente nostalgia), ma che ha condizionato comunque ogni intervento politico sia di destra che di sinistra, dal momento che per riconfigurare il sistema era necessario disboscare una giungla che aveva portato a più di 900 codici d’esame di maturità.
Per creare un nuovo ordine bisognava ripulire il campo dalle incrostazioni. E qui sta un primo drammatico nodo della nostra vicenda scolastica. Quello straordinario fervore creativo, certo disordinato e confuso, era stato comunque la testimonianza di una vitalità incontenibile, di una capillare consapevolezza che la scuola “militante” e non la burocrazia occhiuta e ottusa, succube del ministero dell’Economia, poteva mettere la scuola al passo con i tempi. E quindi secondo alcuni quella vitalità andava valorizzata (sostenitori dell’autonomia), secondo altri contenuta, frenata, sedata, per evitare la deriva di un disordine che avrebbe portato il sistema fuori controllo (scettici sull’autonomia).
C’è una catena documentale, direi una specie di fil rouge, che parte dagli anni Novanta (ministri Galloni, Mattarella, Bianco, Misasi, Jervolino, Lombardi, Berlinguer) per arrivare fino ai giorni nostri, costituita da alcuni soggetti concettuali che, come fantasmi, hanno aleggiato sul sistema scolastico italiano e hanno portato i presidi/dirigenti scolastici a perdere le notti sulla carta, prima, e sulle evanescenti immagini dei computer, poi.
Si tratta (in ordine) del PEI o Progetto educativo di istituto (da non confondersi con l’attuale PEI o Progetto educativo individualizzato, obbligatorio per gli alunni disabili bisognosi di sostegno) caldeggiato negli anni 90 come prima e fondamentale forma di espressione della soggettività collettiva di una scuola.
Il PEI fu oggetto di lunga riflessione, direi per certi aspetti perfino di una “mistica pedagogica” che creò, forse inconsapevolmente, i presupposti per successivi interventi di segno contrario, sempre meno creativi e sempre più formalmente definiti. Su questo documento poi calò infatti la colata di cristallizzazione amministrativa della Direttiva 254/1995, applicativa del DPCM/1995 che disponeva l’assorbimento del PEI nella Carta dei servizi scolastici: interpretazione, questa, nel campo dell’istruzione della Carta dei servizi come definita dalla Direttiva del PCM 27 gennaio 1994.
La sensazione che si ebbe allora fu che la scuola veniva assimilata alle aziende municipalizzate dei trasporti, agli ospedali, alle centrali del latte. Tutto l’entusiasmo educativo, l’afflato ideale e lo slancio creativo del PEI veniva ridimensionato dalla razionale, fredda sequenza degli articoli che trasformavano un processo di ricerca in un ineludibile adempimento.
Un salto di qualità, direi un colpo di reni micidiale operato delle forze propulsive e creative si ebbe tuttavia nel marzo del 1999, e successivamente all’inizio dell’anno scolastico 2000-2001, con il bellissimo ed equilibrato Regolamento dell’autonomia degli istituti scolastici (DPR 275/1999) e il conferimento della dirigenza ai presidi (DPR 233/1998).
Fu allora che comparve il nuovo concetto di Piano dell’offerta formativa o POF, ribattezzato simpaticamente dalle scuole primarie in “Popof” e trasformo successivamente dalla legge 107/2015 in Piano triennale dell’offerta formativa. L’idea è che l’identità di una scuola si manifesti in un documento chiaro e comprensibile all’utenza, che però rappresenta anche la definizione della fisionomia culturale della scuola. È quindi evidente che solo una vera autonomia e non “un gioco da ragazzi” rende quel documento non solo una dichiarazione dell’esistente, ma la proiezione di una visione pedagogico-didattica fondata e credibile.
Questo breve excursus ha una precisa funzione, quella di far comprendere come le due anime che hanno lottato e tuttora si confrontano sulla questione scolastica non abbiano ancora trovato una reale composizione. Il nodo, infatti, riguarda l’idea di autonomia e la sua modalità di attuazione concreta e circostanziata. Va detto anche come le stesse forze politiche (sindacati compresi) soffrano di contraddizioni interne fortissime. Cercherò nella seconda parte di questo intervento di essere ancora più chiaro.
(1 – continua)
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