Conclusa l’ottantunesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia con la vittoria de La Stanza Accanto di Pedro Almodovar, ricordiamo il sessantesimo anniversario del Leone d’Oro assegnato a Il Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni.
Nono lungometraggio dell’autore ferrarese, l’ennesimo incentrato sulle sue tematiche preferite – l’alienazione, la crisi dei valori della società borghese, la disgregazione della famiglia tradizionale, la conseguente incomunicabilità tra gli esseri umani -, il film appare oggi eccessivamente riflessivo, lento nel ritmo, datato nella maniera statica, (volutamente) cristallizzata di trattare i suddetti contenuti. Col senno di poi, quel festival del 1964 avrebbe reso migliore giustizia al Cinema regalando il primo premio a Il Vangelo Secondo Matteo di Pasolini, di cui abbiamo appena ricordato la miracolosa bellezza, rimasta inalterata negli anni.
Il Deserto Rosso narra di Giuliana (Monica Vitti), moglie di un dirigente industriale di Ravenna, borghese e istruita, depressa, insoddisfatta della sua vita sociale e sentimentale, tanto da arrivare a un passo dal suicidio. Incontra però Corrado (Richard Harris), ingegnere collega del marito, col quale inizia una relazione. Si apre per lei una speranza: Corrado sembra essere l’unico che riesca a comprenderne i tormenti. Sogna una fuga su una spiaggia deserta, lontano dalla società che non capisce e che non la consola. Ma l’illusione dura poco, la crisi di Giuliana non fa che acuirsi: nemmeno Corrado riesce ad aiutarla, poiché anch’egli si sente alieno alla società che lo circonda, dalla quale si allontana spesso e volentieri viaggiando per lavoro.
Tra silenzi e inquadrature vuote, oppure distanti dai soggetti piccoli in lontananza, ammiccamenti tra gli amanti clandestini, confusi tra un gruppo di amici ma inesorabilmente soli, Antonioni riflette sulla crisi di valori di cui soffre la società industriale italiana, appena rinata nel boom economico, ma già malata di fobie e alienazioni. La sua regia compassata porta tali contraddizioni alle estreme conseguenze, racchiudendo persone e situazioni in uno sguardo filmico glaciale, quasi disumano.
Film ostico per lo spettatore medio contemporaneo, soprattutto per la lentezza del ritmo narrativo – che volutamente sconfina nell’a-narrativo -, Il Deserto Rosso si distingue oggi per lo straordinario uso sperimentale del colore. Nel suo primo film a colori, Antonioni sceglie come direttore della fotografia un autentico maestro: Carlo Di Palma. Con la sua sapiente collaborazione, il regista disegna la sua realtà cercando di usare il nuovo mezzo a disposizione “in funzione espressiva (…), ho fatto ogni sforzo perché questo mezzo (il colore, n.d.a.) mi aiutasse a dare allo spettatore quella suggestione che la scena richiedeva”, dichiarava lo stesso Antonioni. Ricerca ben riuscita tecnicamente, in maniera anche ammirevole, ma meno dal punto di vista poetico e narrativo. La simbologia scelta dall’autore (prevalenza di grigi e verdi per la fabbrica, rossi e neri per gli interni borghesi) non basta a dare effettivo vigore visivo alle tematiche sottese dal film, già ampiamente esposte.
Curioso notare come anche Pedro Almodovar, il Leone d’Oro di quest’anno, sia autore che fa uso non banale e non standardizzato del colore – da sempre. I suoi film (non so dell’ultimo, il vincitore, non ancora visto) sono sempre colorati come la vita: a volte pieni di giallo, rosso e arancione, altre più cupi sulle tonalità del blu, oppure immoti sulla gamma del verde e del bianco, come appunto accade all’esistenza di ognuno. Strana coincidenza, che in questo anniversario si trovi un film, quello di Antonioni, che pure ha nella ricerca cromatica funzionale alle tematiche il migliore lascito agli spettatori – stoici – di oggi. Con una fondamentale differenza: per Almodovar il colore è la vasta gamma della vita, come già evidenziato; mentre per l’Antonioni del Deserto Rosso il colore è soprattutto straniamento, dissociazione e vuoto esistenziale.
Altra nota di curiosità: anche Federico Fellini, circa nello stesso periodo di Antonioni, realizza il suo primo film a colori (Giulietta degli Spiriti, 1965). Anch’egli, avendo per la prima volta in carriera a disposizione lo strumento “colore”, pensa bene di utilizzarlo per le necessità formali e di contenuto del film. Notazione tutt’altro che banale: siamo all’epoca degli autori cinematografici veri e propri, per i quali il lavoro sull’immagine supera in importanza quello su soggetto, dialoghi ecc., per i quali la peculiarità del Cinema è quella di essere immagine in movimento, solo in via surrogata veicolo di un racconto più o meno strutturato.
In ultima analisi, nonostante non si tratti del miglior Antonioni, valutiamo oggi il vincitore veneziano di sessant’anni fa come un film intellettualmente onesto, formalmente straordinario sul piano visivo, comunque un capitolo non secondario del percorso poetico complessivo dell’opera del regista ferrarese, un intellettuale prestato al Cinema.
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