Lo psicanalista Claudio Risé nel suo articolo su La Verità dell’8 settembre scorso chiude la sua riflessione attorno al caso di Paderno Dugnano affermando che “la rivoluzione oggi maggiormente indispensabile rimane allora quella culturale: sempre più urgente”. Zittite pertanto le inutili e fastidiose trombe dei cosiddetti esperti o sapienti all’affannosa e vana ricerca di “motivazioni” o di “moventi”, crediamo che soltanto il rispettoso silenzio dinanzi alla tragedia ed al mistero possa aiutarci a far emergere la vera urgenza: dove sta andando l’uomo in questa società che ha espulso Dio e che ora distrugge sistematicamente le relazioni?
Eventi come questo sono infatti figli della solitudine nella quale siamo tutti immersi, spesso senza neppure averne contezza. Essa può passare, come è accaduto, assolutamente inosservata e può appartenere al nostro vicino di pianerottolo senza che noi ce ne accorgiamo, anche perché di fatto il nostro vicino neppure lo conosciamo. Nel nostro affannoso parricidio, da noi fortemente voluto e che ha prodotto la nostra posizione culturale a partire dal Sessantotto ad oggi, abbiamo fatto fuori qualsiasi legame identitario. Infatti, come scriveva un altro psicanalista junghiano, Enrico Ferrari, l’uccisione del padre non è stata finalizzata alla sua sostituzione, ma alla sua abolizione. Ci siamo ritrovati con in mano una incapacità relazionale che abbiamo fantasticato di sostituire con il surrogato delle relazioni a distanza, dove corpo, emozione, fisicità, em/simpatia non hanno avuto più posto. In realtà, quello che fa davvero paura è che il motivo per il quale a Paderno Dugnano, o chissà dove nel mondo, manca il “movente” è quello che manca la persona che si muove e la direzione per dove si muove. In sostanza, manca l’Io.
Tanti commentatori della vicenda si sono rincorsi nel sottolineare l’incapacità di leggere e di esprimere le proprie emozioni, il non accesso al proprio mondo profondo, la non capacità comunicativa, il non ascolto da parte del mondo circostante e così via. Tutto vero, ma a nostro parere la situazione con la quale abbiamo a che fare sta ad un passo ancora prima: non si dice niente, non soltanto perché non si riesce a tradurre qualcosa in parola, ma perché manca il “qualcosa” da tradurre, manchiamo noi. L’Io si costituisce in e come relazione: a partire da quella originaria ed identitaria si plasma con l’altro lungo un lento percorso di riconoscimento reciproco dinanzi a due punti irriducibili: la realtà come dato ed il proprio mondo interno irto di esigenze e di desiderio.
L’angosciante solitudine nella quale giacciono i nostri figli, assieme ovviamente anche a noi medesimi, è figlia del tentativo culturale (per questo Risé ha ragione) di escludere la relazione e di lasciare l’uomo solo immerso in un inevitabile narcisismo. Noi crediamo che questa condizione nasca proprio e originariamente dall’esclusione di Dio dalla storia, come proclamava Nietzsche col suo annuncio della morte di Dio, e dal fatto che l’Io, tolto dalla relazione, non può vivere, come affermava Watzlawick.
Vi sono situazioni nelle quali si può perdere di vista sé stessi oppure l’altro; quando però a perdersi di vista sono entrambi, tutto diviene privo di un punto di riferimento e la lettura di quello che ci anima diventa impossibile. Si genera allora la ricerca di una dipendenza estrema, dove l’altro diviene il prolungamento di sé e del proprio malessere e senza le coordinate diventa un ostacolo o un bersaglio, un nemico. Dentro a una società che produce continuamente stimoli, tutto si fa rumore, brusio continuo legato all’ansia da prestazione che toglie il silenzio. Ma è nel silenzio che si forma il pensiero e questo, se non può evolvere e manifestarsi, diventa agito, che spesso irrompe in maniera violenta per dare uno stop a pezzi di pensieri troppo faticosi o fastidiosi.
Davanti a fatti di cronaca come quelli di Paderno Dugnano vi è un elemento violento, inconcepibile: non esiste il “motivo”, o meglio il motivo esiste ma non è categorizzabile. E non è categorizzabile perché è relazionale, nel senso della mancanza di relazioni. Queste, infatti, non sono traducibili in concetti, come avviene per gli oggetti, un tavolo o un cellulare ad esempio. Quindi ancor più arduo è parlarne quando la causa di un evento si configura come assenza di relazioni. Così, per l’essere umano, che ha bisogno di sapere il “perché” per quietare le proprie angosce e per dare senso al reale, tutto diviene incomprensibile.
D’altra parte siamo nell’epoca della frammentazione: non esiste più il simbolo, la comunicazione è contratta, si è connessi ma non in relazione, si è ovunque ma da nessuna parte. Gli agiti, come atti sostitutivi del pensiero, ci sono sempre stati, ma sono sempre stati relegati nella sfera della follia, della persona emarginata e reclusa, mentre oggi invadono tutto il tessuto societario come segno di una sofferenza non ascoltata. Si sta perdendo l’essere e per emergere l’unica cosa che resta è quella di “rompere” l’altro e la relazione con lui, ma non solo simbolicamente purtroppo. Il mito di Edipo diventa drammaticamente ancora più attuale, con la fatica però a ritrovare il simbolo e la potenza del suo messaggio. In una vicenda come quella di Paderno Dugnano si ritrova tutta la drammaticità della situazione odierna, l’uccisione del padre come modo non per evolvere, ma per risolvere il proprio malessere, una ferocia disperata per salvare sé stessi attraverso la perdita dell’altro.
Questa condizione è esplosa con l’esperienza della recente pandemia, cioè del tempo dell’incontro con il limite e la frattura della relazione. Il dilagare dei disturbi di panico non è infatti incomprensibile: esso è una manifestazione che consegue all’accumulo di emozioni negative che attivano angosce di frammentazione. I disturbi legati al comportamento alimentare, anch’essi esplosi, hanno a che fare con il panico e la fatica legata al crescere. Le condotte alimentari come il panico esprimono il tentativo di controllare corpo e corporeità, che sono qualcosa di impossibile da controllare. L’individuo che non vuole evolvere per paura sa, dentro di sé, in maniera inconscia e quindi più potente, che qualsiasi tentativo di non crescita è assolutamente impossibile.
Mai come oggi ci viene in aiuto il pensiero di Hannah Arendt, che ha sottolineato la profonda distinzione tra “sapere” e “pensare”, definendo quest’ultimo come attività che non si conclude mai e che si basa su un processo continuo e critico. Il pensiero consente di riflettere sulle proprie azioni e metterle in discussione cercando significati sempre più profondi. In una società che mira alla ricerca di soluzioni definitive e poco flessibili, che punta al totalitarismo attraverso l’uso massiccio dei mass media risulta difficile accedere ad un’attività di pensiero come qualcosa di flessibile e critico. Il non criticare il reale (che la nostra società vuole sostituire con l’ideologia) non consente l’accesso al simbolico, perché viene a mancare quella autoriflessione che permette di guardare al rapporto tra Sé, Io e realtà in un circuito continuo. Siamo infatti nell’epoca della “banalità del male” intesa, secondo Arendt, come “totale mancanza di pensiero critico ed obbedienza cieca all’autorità, piuttosto che di una malvagità intrinseca”.
Ecco qui rappresentato quanto accade in questi giorni: si fa fatica a parlare di una malvagità intrinseca, quanto più di una mancanza di critica. La presenza di una malvagità, infatti, porta con sé un pensiero più strutturato e basato sul tentativo di fare intenzionalmente male all’altro, ma l’assenza di un pensiero è una condizione tremenda. Nella lotta continua tra Eros e Thanatos vince quest’ultimo, in una spirale tragica dove l’essere umano fa fuori sé stesso.
In un contesto come quello odierno la vera emergenza, prima di quella sanitaria o educativa, è quella culturale, come diceva Risé. Resta urgente ripristinare una cultura dell’altro e dell’incontro che acceda alla dimensione della colpa e non della vergogna, dove quest’ultima annienta la relazione perché fa percepire sé come sbagliato e l’altro come giudicante. La colpa, invece, consente di ripristinare il pensiero critico e di guardare alle proprie azioni non come coincidenti con sé, ma come una parte sulla quale lavorare, come descriviamo nel nostro recente volume Ansia e Idolatria (Inschibboleth, 2024). Bisogna ripristinare la cultura della prossimità, della vicinanza, del corpo e del silenzio.
Allora pensiamo a quella famiglia, che ora sembra non esistere più. Di fatto nessun membro di quella famiglia in prima battuta pare essere salvo, perché spazzato via dalla violenza che uccide la relazione e l’appartenenza. Come dice il filosofo Byung-chul Han, ci stiamo distaccando dalle cose e dalla loro appartenenza perché siamo alla ricerca di informazioni e di “like”, di azioni forti per sentirci vivi, perché si è perso il godere delle cose. Siamo nel tempo, per usare una espressione di Thomas Fuchs, del drammatico ed angosciante videor ergo sum: appaio quindi sono.
La sfida è quella di riuscire a ripristinare una temporalità più consona all’essere umano e alla sua evoluzione, un tempo di ascolto e di sospensione dell’interpretazione per giungere a creare uno spazio di ascolto del proprio corpo e delle proprie emozioni. È necessario ripristinare una separazione tra generazioni ed anche accogliere la frustrazione non come punizione, ma come limite necessario per cogliere la propria identità e quella dell’altro. Una cultura della vicinanza implica la fatica buona dello stare con l’altro ed uno sguardo che possa percepire il limite proprio e dell’altro come spazio di incontro relazionale e non come muro da abbattere.
Ma ciò richiede la riscoperta di tre elementi che la tradizione biblica ci aveva lasciato in eredità e che la modernità rischia sempre più di perdere: la vita come criterio di giudizio, il senso del mistero e la serietà della parola del padre. Ad essi si riferisce l’omelia pronunciata da mons. Mario Delpini durante il funerale lo scorso 12 settembre: “Ecco: di fronte all’incomprensibile tragedia la parola del Signore ci aiuta a decifrare l’enigma e a raccogliere da Lorenzo, Daniela, Fabio il cantico della vita e della speranza giovane di un fratello, l’intensità dell’amore misterioso di una mamma e la responsabilità della parola vera di un papà”.
E queste sono parole di speranza in relazioni più forti della morte.
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