Nell’ultimo mese la cronaca ci ha messo davanti tre episodi di violenza talmente efferati da lasciare sgomenti. Prima il delitto a freddo e senza nessuna motivazione di Sharon Verzeni nelle strade di un paesino della Bergamasca; poi il delitto di Paderno Dugnano, genitori e fratellino uccisi a coltellate dal figlio maggiore; infine, la terribile scoperta dei corpi di due neonati uccisi dalla loro giovane mamma e sepolti nel giardino di una villetta a pochi chilometri da Parma. Sono tragedie esplose nel contesto di un’Italia tranquilla e benestante, senza il minimo segnale preventivo.
Era una famiglia normale e aperta all’ascolto dei figli quella sterminata a Paderno. Non c’è un perché nella decisione di Moussa Sangare di accoltellare Sharon. E infine nessuno, neanche chi le viveva più vicino, aveva intercettato indizi delle due gravidanze della ragazza di Traversetolo. Sono vicende in cui il male, in forme tanto più terribili quanto più sono gratuite, sembra davvero sbucare dal nulla. Manca qualunque di quelle premesse che possono in qualche modo attutire l’accaduto e avanzare possibili motivazioni: proprio per questo qualunque azzardo di spiegazione che pur in queste settimane abbiamo letto e ascoltato, si rivela solo banale paccottiglia.
In un intervento pubblicato su Repubblica, Luigi Manconi ha onestamente ammesso che davanti a fatti come questi restiamo “attoniti per l’incapacità di comprendere l’accaduto attraverso le categorie che siamo abituati a maneggiare, ci affidiamo alle banalità sedimentate da un’istruzione scolastica irreparabilmente datata”. L’ansia di spiegarci tutto, di capire come possa accaduto per sentirci garantiti, per darci una sicurezza blindata di essere esenti da questo rischio, in questi tre casi recenti non trova risposte esaurienti. Come ha scritto sempre Manconi, noi siamo portati “al rifiuto di accettare l’esistenza del male. La coscienza, cioè, che nella nostra stessa identità umana è presente la possibilità della rottura, dello strappo, della caduta”.
In una pagina visionaria di Passaggio in India l’avvocato Hamidullah, davanti alla richiesta di individuare il colpevole del fatto di violenza al centro del romanzo, elude l’interlocutore con una risposta spiazzante: “Non si può compiere nulla isolatamente”. L’azione incriminata, dice, “è stata compiuta da me, è stata compiuta da voi e dai miei studenti”. Il male, spiega il personaggio del romanzo di Forster, come il bene, è parte della natura umana e quando accade tutti ne siamo toccati. Non ce ne si può tirar fuori, anche se siamo le persone più mansuete del mondo. Così come non si può confinare gli autori di quei terribili gesti in una condanna senza appello. Sono stati risucchiati dalla forza del male, senza che avessero né forza né volontà di opporre resistenza: il che non significa che non siano responsabili di ciò che hanno compiuto.
Il male è planato sulle loro vite, ma si è così palesato anche in mezzo alle nostre vite che tendono a eluderne la presenza. Davanti alla tragica plasticità di questa presenza si può solo reiterare la preghiera che Gesù stesso, con molto realismo, ci ha regalato: “liberaci dal male”. E si può dar voce a quel grande sentimento umano, così marginalizzato in questo nostro tempo, che è la pietà. Pietà anche per gli autori di quei fatti, che vuol dire innanzitutto accompagnarli nella difficile e drammatica presa di coscienza di ciò che hanno compiuto. Ricordo che lavorando al settimanale Il Sabato, dovendo affrontare un episodio di analoga cieca drammaticità, noi giornalisti fummo incalzati da Giovanni Testori, anziché a cercare spiegazioni, ad aprire un rapporto con l’autore del delitto, attraverso lettere a lui destinate. La prima la scrisse lo stesso Testori e cominciava così: “A te come te…”.
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