Nessuna tregua. Ieri a New York Netanyahu ha respinto una proposta di cessate il fuoco avanzata da Usa, Ue e Paesi arabi. “Colpiremo Hezbollah fino al raggiungimento degli obiettivi”, ha dichiarato il premier israeliano.“Non esiste un mandato morale per un cessate il fuoco, né per 21 giorni né per 21 ore” gli ha fatto eco il ministro degli Insediamenti Orit Strock.
Questo proprio nel giorno in cui gli Usa concedono a Israele altri 8,7 miliardi di dollari di aiuti in armamenti. In Libano intanto la situazione si aggrava: solo nelle ultime 24 ore il bilancio dei raid israeliani nel Libano del Sud è di 40 morti e 80 feriti, secondo le autorità di Beirut. Vanno ad aggiungersi alle vittime degli scorsi raid e agli sfollati, circa 100mila.
Nelle scorse ore l’IDF – le forze militari israeliane – avevano fatto sapere di essere pronte ad una operazione di terra. Per quanto possa sembrare paradossale, “Netanyahu punta ad allargare il conflitto perché non ha le forze sufficienti a garantire da solo la sicurezza di Israele”, secondo Marco Bertolini, generale della Brigata Folgore e comandante di numerose operazioni speciali, in Libano, Somalia, Kosovo, Afghanistan.
Nessun cessate il fuoco, i combattimenti vanno avanti. Cosa pensa del modo in cui si sta configurando questa operazione di Israele in Libano?
Israele non ha alcuna remora ad invadere il Libano, lo ha già fatto nell’82 con l’operazione “Pace in Galilea”, e al momento sta facendo raid aerei che sembrerebbero preliminari a un’invasione di terra. Uno scenario che non si può escludere, ma che sarebbe complicato da attuare.
Per quale motivo?
Non basta dire di voler mettere in sicurezza il nord di Israele. Sì, ma come? Occupando tutto il Libano fino a Beirut, come Israele fece nell’82 e come ha cercato di fare nel 2006? O arrivando fino al fiume Litani per mettere sotto controllo israeliano un’area più ristretta? L’avventura del generale Lahad, comandante dell’esercito del Libano del sud (Els) eterodiretto da Tel Aviv e dissoltosi nel 2000, è un monito che parla chiaro.
E cosa dice?
Bombardare non è difficile, molto fa la tecnologia, che a Israele non manca. Un’invasione invece, per avere un senso, implica il successivo controllo del territorio. Per esercitarlo servono forze di terra in quantità. Israele ha questa disponibilità di forze? Io ne dubito.
Non è uno degli eserciti meglio addestrati al mondo?
Senza dubbio. Ma Israele è un Paese piccolo, per di più con una economia oggi abbastanza traballante. I soldati, per quanto addestrati, sono quasi tutti uomini prestati alle armi dalla società civile. Questo incide in modo determinante sulla sostenibilità dello sforzo.
E una guerra-lampo, colpendo il sud in mano a Hezbollah per poi ritirarsi?
Non sarebbe sufficiente. Hezbollah non ha solo un esercito che nel 2006 ha fermato gli israeliani, è anche una realtà politica e sociale, ha un suo welfare, assiste vedove, orfani, indigenti. È radicato nel territorio.
Qual è fino ad oggi l’entità dei danni inflitti dall’IDF a Hezbollah?
A mio avviso è marginale. Il doppio attacco tecnologico di settimana scorsa è stato un successo dal punto di vista dell’intelligence, dunque solo a metà. Sarebbe stato completo se l’attacco aereo fosse stato realizzato a strettissimo giro, inabilitando la capacità di Hezbollah di riorganizzarsi. Invece non è stato così. È sembrata più un’operazione fatta per impressionare i libanesi e l’opinione pubblica internazionale. Tralascio ogni considerazione sul piano morale e umanitario, perché ne avete già parlato.
Secondo lei da Hezbollah è arrivata una risposta proporzionata sul piano militare?
No, a mio avviso Hezbollah ha tirato il freno. Finora, a parte i soliti razzi, ha lanciato un missile balistico sul quartier generale del Mossad. Israele non si è pronunciata. È un messaggio: vuol dire che dispone di altri missili balistici, oltre alla dotazione di cui normalmente si parla.
Perché Hezbollah non avrebbe adeguato la risposta?
A mio avviso per due ragioni. La prima, per non scoprire eccessivamente le sue postazioni, in vista di una possibile invasione di terra.
E la seconda?
La seconda è di tipo strategico e mi pare improntata alla volontà di frenare un allargamento regionale del conflitto, compensando l’opposta volontà di Israele, che è invece quella di allargarlo.
Ci spieghi meglio.
Da parte di Iran, grande sponsor di Hezbollah, e Russia non c’è interesse in questo momento ad arrivare a un’escalation, perché potrebbe diventare incontrollata. L’Iran è alleato della Russia e la rifornisce di armi; la Russia è presente in Siria, e la Siria è continuamente nel mirino di Israele. C’è il rischio di una saldatura fra la guerra che si combatte oggi in Medio oriente e quella in Ucraina.
E Israele?
Netanyahu invece ha interesse ad allargare il conflitto, per un motivo preciso: perché non ha le forze, il “manpower” sufficiente a garantire da solo la sicurezza di Israele.
I fronti sono tanti: Gaza, Libano, Cisgiordania, Mar Rosso, Siria.
È proprio questo il punto. Una parte non indifferente della società israeliana è convinta che Israele debba espandersi; da qui le politiche di pulizia etnica a Gaza e ancor più in Cisgiordania. Poi c’è il problema di garantire la sicurezza in Galilea. Al tempo stesso c’è un pezzo di società israeliana che accusa Netanyahu di avere subordinato la vita degli ostaggi alla sua guerra, alla guerra della destra.
Hanno ragione?
Una cosa è certa: non si arriva a liberare un centinaio di ostaggi con operazioni in cui si spiana tutto.
Secondo la Reuters ci sarebbe una trattativa in corso tra Russia e Houthi per la fornitura di missili ipersonici antinave.
È la conferma di quello che stiamo dicendo. La saldatura (delle due guerre, ndr) è dietro l’angolo. Netanyahu e Zelensky hanno in comune l’interesse ad allargare la guerra, perché non hanno le forze per i loro obiettivi: Zelensky non ha le forze per ricacciare i russi fuori dal Donbass, Netanyahu non ha le forze per tenere sotto controllo tutti i fronti aperti. Di conseguenza entrambi cercano di coinvolgere maggiormente gli americani. Zelensky anche la Nato.
Chi ha più possibilità di riuscirci?
Non Zelensky: in risposta al sostegno Usa, Putin ha ridefinito la dottrina nucleare russa. Per Netanyahu è diverso. Chiunque vada alla Casa Bianca, poco cambierebbe. Harris farebbe come Biden, mentre per Trump i palestinesi dovrebbero rinchiudersi in riserve indiane lungo i confini di Israele.
Siamo su un piano inclinato?
Sì, decisamente. Su entrambi i fronti. In fondo al piano inclinato c’è un’unica grande guerra.
Che cos’è che nel breve o nel medio termine può scongiurare la saldatura tra le due guerre?
Da un lato l’Iran e la Russia stanno cercando di evitare risposte importanti sotto il profilo militare, sapendo che sarebbero prese come provocazioni. Dall’altro le elezioni americane potrebbero portare, nel caso vincesse Trump, ad un alleggerimento delle tensioni in Ucraina. Già questo potrebbe cambiare il quadro, consentendo di affrontare la tragedia mediorientale in maniera più pacata.
Come la prenderebbe Israele?
Netanyahu continua a spingere senza freni e fa una continua esibizione di forza che sembra attingere a risorse illimitate. In realtà, Israele ha grande tecnologia e intelligence, alimentata dal supporto americano e britannico, ma risorse umane limitate, che unite a standard di vita e sensibilità occidentali alla lunga possono diventare il primo, serio problema per lo Stato ebraico e chi lo governa.
(Federico Ferraù)
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