Per entrare nel clima autunnale nel modo migliore, niente di meglio che leggere (o ri-leggere) un romanzo di Georges Simenon che è ormai diventato un classico: In caso di disgrazia (Adelphi, 2018). Nel racconto, cupissimo, si trovano moltissimi degli stilemi e delle situazioni-tipo dei romanzi simenoniani: il protagonista, Lucien Gobillot, è uno dei più celebri avvocati parigini; è un uomo di successo, conosciuto, ammirato, forse anche invidiato; la sua brillante carriera deve molto alle relazioni di sua moglie nell’alta società. E la moglie di Gobillot, Viviane, raffinata e sprezzante, è una donna elegante, una vera signora, che non si sognerebbe mai di uscire di casa senza il suo tailleur nero sotto il visone, e senza il cappellino con la veletta.
Ma una sera a Gobillot si presenta una ragazza, Yvette, che certo non appartiene all’ambiente alto-borghese e rassicurante cui l’avvocato è ormai abituato: e se ai suoi clienti, come dice Gobillot stesso, quando gli si presentano in studio, non consente mai di partire dalla fine, o dalla metà dei fatti da raccontare, lui, invece, farà proprio così. E questo perché la faccenda di Yvette ormai lo sta ossessionando, ed egli non vede l’ora di liberarsene. Il romanzo, in questo senso, è una sorta di memoriale, di diario di una ossessione, e, come spesso accade ai personaggi di Simenon (pensiamo al medico famoso dell’Orsacchiotto, o al campione della rispettabilità borghese protagonista del Borgmomastro di Furnes), è attraverso una figura femminile che i protagonisti vedono aprirsi una crepa nello spazio sino a quel momento limpido e razionale della loro vita.
Quella che la segretaria di Gobillot definisce una “ragazzina”, con tanto di capelli raccolti in una coda di cavallo come le ballerine, si presenta dunque al grande avvocato per chiedere assistenza per sé e per l’amica Noémie, con cui ha organizzato una rapina ai danni di un orologiaio. Yvette, nota Gobillot, ha “un viso da bambina e da vecchia allo stesso tempo, un misto di ingenuità e di astuzia … di innocenza e di vizio”. Nel contegno di Yvette c’è qualcosa di sfrontato e sfidante, persino nella posa, dato che si compiace, accavallando le gambe, di scoprirle sin sopra il ginocchio sotto gli occhi dell’avvocato. Il quale, a sua volta, nota che “il trucco … era eccessivo e maldestro, come quello delle prostitute di bassa lega o di certe servette appena sbarcate a Parigi”. E, in effetti, la ragazza ammette senza pudore alcuno che, una volta arrivata nella capitale dalla profonda provincia francese, si è dovuta arrabattare con ogni mezzo, ma proprio con ogni mezzo: Yvette lo dice esibendo sfrontatezza, ma in lei c’è anche una profonda vulnerabilità, fisica, per prima cosa (con quella sua aria magra e patita), e, soprattutto, spirituale, che finisce per toccare e commuovere Gobillot. Egli è un uomo dall’autocontrollo proverbiale, tanto che racconta: “In tribunale sostengono che sono capace di scrivere il testo di un’arringa difficile e intanto dettare la corrispondenza e fare pure qualche telefonata. Si tratta, com’è ovvio, di un’esagerazione, ma è vero che posso seguire contemporaneamente due idee senza perdere il filo dell’una o dell’altra”.
Eppure, questa capacità di controllo persino impressionante sembra venire meno a contatto con Yvette. La ragazza si lega al vecchio avvocato e i due diventano amanti; per lei, Gobillot mette anche in crisi il suo rapporto ventennale con la moglie; però, come sempre nei romanzi di Simenon, la tragedia è sempre in agguato e il percorso verso la felicità – che parola grossa! – o, per meglio dire, verso la realizzazione dei propri desideri, non è mai lineare. In particolare, Yvette è corteggiata dal giovane Mazzetti, uno studente di medicina che vorrebbe sposarla e non si arrende all’idea di saperla con un avvocato tanto più anziano di lei, e per giunta sposato.
Il finale sarà, ovviamente, come sempre (altrimenti non sarebbe uno dei romans durs di Simenon) tragico: ed ecco che allora acquisirà senso e valore lo scrupolo del vecchio avvocato, che completerà il suo racconto, memoriale o dossier che dir si voglia, iniziato presagendo che il Fato avrebbe chiesto il conto, e lo consegnerà a un collega.
Scritto nel 1955 e pubblicato all’inizio dell’anno successivo, il romanzo è ancora oggi uno dei più forti e disperati di Simenon: dalle sue pagine spira un senso di ineluttabilità che difficilmente si dimentica. E per chi volesse dare corpo e volto ai personaggi, consigliamo il film tratto dal libro nel 1958, e diretto da Claude Autant-Lara, con Jean Gabin nel ruolo di Gobillot, e Brigitte Bardot, fresca reduce dal trionfo di Et Dieu … créa la femme (1956), in quello di Yvette. Il titolo? Ma naturalmente, La ragazza del peccato.
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