La guerra, le religioni e il cuore dell’uomo

Le religioni possono veramente essere un bene, perché custodiscono quella domanda di infinito che costituisce la grandezza dell'umano

Sempre, di fronte alla guerra, gli uomini di fede hanno invocato e invocano Dio perché cessino i conflitti, perché si fermi la spirale della violenza, della morte, della distruzione, perché si ritrovino le strade di una pace possibile. Accanto alla preghiera silenziosa di milioni e milioni di uomini, anche oggi si leva l’incessante preghiera del Papa, così come l’instancabile e reiterato appello che il cardinale Pizzaballa ci fa giungere dalla martoriata Terra santa, appello che nel mese di agosto aveva ricevuto anche l’espressione di gratitudine e di condivisione da parte di Yahya Pallavicini, Imam della Comunità Religiosa Islamica Italiana. Il dialogo e l’amicizia tra uomini di fedi diverse ha sempre accompagnato l’invocazione rivolta a Dio perché conceda il dono della pace.



Nel recente viaggio in Indonesia, a Giacarta, nella Moschea Istiqlal, Papa Francesco ha firmato, congiuntamente al Grande Imam Nasaruddin Umar, la Dichiarazione “Promuovere l’armonia religiosa per il bene dell’umanità” nella quale si legge: “Il fenomeno globale della disumanizzazione è caratterizzato soprattutto da conflitti diffusi, che speso provocano un numero allarmante di vittime. È particolarmente preoccupante che la religione sia spesso strumentalizzata in questo senso, causando sofferenze a molti, soprattutto donne, bambini e anziani”. All’incontro di Giacarta, peraltro, erano presenti i rappresentanti di tutte le religioni ufficialmente riconosciute in Indonesia: islam, buddismo, confucianesimo, induismo, cattolicesimo e protestantesimo. Rischio che la religione sia strumentalizzata, afferma la Dichiarazione di Giacarta, tentazione che le religioni diventino “strumento per alimentare nazionalismi, etnicismi, populismi”, ricordava recentemente papa Francesco nel suo messaggio per l’Incontro Internazionale per la pace di Parigi, “il dialogo interreligioso attraversa una crisi profonda” leggiamo nelle accorate parole della recente intervista al Cardinale Pizzaballa. Ma allora, mentre continuiamo a domandare a Dio il dono della pace, non possiamo non chiederci se e come proprio le religioni possano svolgere un ruolo utile alla pace, possano rappresentare un bene in questo mondo così lacerato dalle guerre e dall’odio. Le religioni! Tutte le religioni? C’è qualcosa che esse hanno veramente in comune e che può consentire ad ogni uomo di guardare l’altro, pur se diverso, con un ultima scintilla di simpatia o perlomeno di domanda?



Sempre a Giacarta, nell’Incontro interreligioso in Moschea, papa Francesco affermava che “la radice comune a tutte le sensibilità religiose è una sola: la ricerca dell’incontro con il divino, la sete di infinito che l’Altissimo ha posto nel nostro cuore. Guardando il desiderio di pienezza che abita il profondo del nostro cuore, noi ci scopriamo tutti fratelli”. Ecco, forse è proprio questo il bene che ogni religione può portare nel mondo! Tenere viva la coscienza che l’uomo è sete di infinito. Proprio l’insicurezza, la paura, la fatica del vivere, che accompagnano in maniera sempre più vistosa il nostro quotidiano, sono come il lucignolo fumigante di qualcosa che ci manca, di una domanda che forse non abbiamo neppure il coraggio di far emergere, ma che ci accompagna, instancabile e inestirpabile. In fondo in fondo io chi sono? Cosa sono? Solo ansia, paura, ricerca di sicurezze?



E la religione cosa c’entra con tutto questo? Qualche preghiera recitata con devozione più o meno distratta, che tranquillizza per qualche minuto, ma che non regge all’incalzare della vita? Ma se in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo Dio non serve a nulla, allora possiamo chiudere la partita e accettare che le religioni in fondo sono solo una complicazione, quando non un problema. Noi cristiani oltretutto ben sappiamo che la nostra religione non attraversa sicuramente un momento felice. A cosa può servire quel cristianesimo “di minoranza”, “non più sistemato in una cornice sociale ospitale”, come lo ha definito Papa Francesco nel suo recente viaggio in Belgio?

Forse proprio noi cristiani possiamo cogliere questo tempo come l’occasione per domandarci cosa ne abbiamo fatto di quella sete di infinito? Dove abbiamo confinato quel bisogno di senso che ogni tanto ci stringe alla gola? Quando guardiamo gli altri, che non ci vanno bene, che non si comportano bene, che sono diversi, ci viene mai in mente che anche loro, sotto quel muso sgradevole, sotto quella pelle di colore diverso dal nostro, dietro quello sguardo torvo, portano, più o meno consapevoli, la nostra stessa sete di infinito? Quella sete che, nell’ esperienza di ognuno di noi che si definisce cristiano, un giorno, si è incontrata con un fatto, una persona, qualcosa, che abbiamo potuto vedere e toccare, la presenza del Mistero diventato uomo. Questo è il cristianesimo. Ed è proprio questo incontro che ci rende sempre più appassionati nell’ ascoltare quel desiderio del cuore di cui diventiamo sempre più consapevoli e che ci sospinge ad amare quella presenza incontrata. E siamo sempre più certi che le religioni possono veramente essere un bene, perché custodiscono quella domanda di infinito che costituisce la grandezza dell’umano. Come con struggente lucidità descrive Leopardi nei Pensieri. “Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir cosi, dalla terra intera, …immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo,…pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga nella natura umana”.

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