La vicenda dell’Apocalypsis nova ha il sapore di un thriller d’altri tempi. Ci mette sulle tracce di un testo che suscitò un fermento di attenzioni fuori dal comune agli inizi del Cinquecento. Il fascino che ne poté derivare si legava alle attese di un passaggio imminente alle ultime e più decisive fasi della storia umana, prefigurate con entusiasmo nel contesto della predicazione di Savonarola e di tanti altri profeti che, come lui, insistevano sul bisogno di un rinnovamento profondo delle coscienze e degli stili di vita, per riportare una fede viva e autentica al centro della cristianità, spazzando via le incrostazioni venute a sovrapporsi al messaggio di salvezza della Chiesa di ogni tempo.
La riforma di cui si diffuse allora il desiderio non era comunque trasferibile nell’aldilà di un mondo a parte, che sovrastava dall’alto la povera realtà umana: doveva investire la realtà di quaggiù, puntare a rinnovare l’edificio della religione condivisa a partire dai suoi vertici supremi, nello spazio aperto dalle circostanze favorevoli preordinate dalla Sapienza divina. Il profeta era colui che spianava la strada a questo irrinunciabile sbocco futuro, in vista del quale bisognava attrezzarsi per essere pronti quando sarebbe suonata l’ora del riscatto destinato a invertire la parabola negativa del declino. Un pastore saggio, illuminato e ardente di carità ‒ quello che poi sarebbe stato immaginato come un “pastore angelico”: una sorta di riattualizzazione del paradigma supremo della figura di Cristo ‒ si sarebbe posto alla guida di una chiamata generale alla riconversione. Una vera e propria rinascita collettiva avrebbe comportato il ritorno alle sorgenti originarie e più pure del rapporto di alleanza con Dio. Come frutto si attendeva la riconciliazione dell’intero organismo cristiano, la concordia universale sotto il segno della fede comune. Sarebbe diventata possibile anche la rivincita della cristianità contro le fedi avversarie che le avevano sottratto il dominio di larghi settori del Vecchio Mondo e, in particolare, dell’Oriente islamizzato, Terra Santa compresa.
L’annuncio profetico elaborato da Amadeo Menez de Sylva (1420 ca.-1482) negli ultimi anni della sua esistenza, prima che la morte lo cogliesse, a Milano, nel 1482, era affiorato dalle tenaci ruminazioni della Parola biblica e dell’enorme patrimonio delle tradizioni spirituali fiorite intorno al suo codice di base. Le radici affondavano nella febbrile ricerca della perfezione coltivata in non pochi dei chiostri della multiforme galassia francescana, accostata in Italia dal beato Amadeo muovendosi tra la Lombardia del Rinascimento sforzesco e la Roma del governo papale. Con gli insegnamenti che cominciò a lanciare, attraverso gli scritti e la diffusione delle immagini, contagiò una cerchia vastissima di seguaci suggestionati dalla medesima attesa.
Ma il testo-chiave in cui si fissò il suo proclama di rigenerazione del mondo cristiano, che avrebbe dovuto segnare la fine dei mali del tempo presente e innescato il passaggio alla nuova età dello Spirito, rimase inaccessibile, deliberatamente sottratto a ogni fruizione immediata. Era il libro in cui Amadeo fece trascrivere il nucleo delle rivelazioni che si dichiarava convinto di aver ricevuto da una serie di creature angeliche accostate in visione. A tema era la svolta provvidenziale verso la quale si era incamminati per un disegno divino. Per questo il testo doveva rimanere scrupolosamente sigillato: la sua lettura e, quindi, il pieno dispiegamento della profezia che conteneva erano riservati in via esclusiva al “pastore in procinto di venire”, l’araldo predestinato a inaugurare, sulla scena del mondo, la riforma invocata come prova del fuoco attraverso cui bisognava necessariamente passare.
Le immagini di frate Amadeo rintracciabili nell’arte sacra di fine Quattro-inizio Cinquecento lo mostrano, non a caso, nella posa di sorreggere con le proprie mani un libro chiuso, sulla cui coperta compare la scritta: “Aperietur in tempore” (“sarà da aprire nel tempo prefissato”). Una diceria, senza dubbio infondata, propagandò persino l’idea che il libro delle rivelazioni angeliche fosse stato rinchiuso nella tomba del beato insieme alla sua salma venerata. Quel che è certo, è che un alone di intoccabilità si costruì intorno a un messaggio che doveva restare “cifrato” nelle sue pieghe nascoste. E il marchio del divieto severo contribuì a rinfocolare senza sosta, in senso contrario, l’ansia di potersi impadronire degli arcana tenuti sotto sequestro.
Nonostante le pressioni esercitate a più riprese dalle gerarchie ecclesiastiche romane, negli ambienti papali, da esponenti dei più vivaci circoli intellettuali e dalle corti dei poteri civili che, nell’Europa del tempo, guardavano alla realtà della Chiesa come partner imprescindibile per il loro potere in vetta alla società cristiana, la versione primitiva dell’Apocalypsis nova resistette agli appetiti di chi macchinava per impadronirsi dei suoi contenuti e piegarli, prima di chiunque altro ‒ se, e fin dove ciò si fosse rivelato possibile ‒ al proprio servizio. Circolarono indiscrezioni e si moltiplicarono le voci sulle curiosità che la consegna della riservatezza costringeva a lasciare momentaneamente in sospeso. Ma non ci fu la pubblica divulgazione della profezia come tale, congegnata per rimanere interdetta fino all’avvento del suo protagonista supremo.
Il muro di protezione finì per sbriciolarsi solo a molti anni di distanza. Attraverso maneggi che non sono noti nei dettagli, il manoscritto del frate visionario era stato quasi subito trasferito nella capitale della cristianità. Ed è qui, nel 1502, che si ebbe la rottura decisiva. Il libro delle rivelazioni profetiche fu aperto alla presenza di un ristretto manipolo di alti prelati, e da allora si mise in moto la corsa all’accaparramento delle chiavi di verità avvolte dal linguaggio simbolico del testo. Esplosero i conflitti di interpretazione. Diverse intromissioni portarono a ristrutturare il testo tramandato per rimediare ai punti deboli individuati, per riempire quelle che agli occhi di alcuni fruitori apparivano lacune problematiche, e soprattutto aggiornare le predizioni degli eventi futuri, a distanza di più di vent’anni dalla stesura iniziale del libro profetico.
Nella gara per incardinare la rivelazione divina nelle urgenze del presente si distinse in primo luogo l’influente cardinale spagnolo Bernardino López de Carvajal. In alternativa alla sua pretesa di poter essere riconosciuto come l’agognato “pastore angelico”, dopo che già si erano rivelate infondate le analoghe aspettative di papa Giulio II Della Rovere, si mobilitò il teologo francescano di origine bosniaca Giorgio Benigno Salviati, che a Milano, dal 1514 in poi, prese a sostenere la candidatura del cardinale riformatore Denis Briçonnet. Una forte presa la profezia ormai svelata e debitamente riadattata del beato Amadeo poté guadagnarla nella cerchia toscana che rimaneva legata alla memoria di Savonarola, e da qui la profezia finì per essere fatta propria da Giovanni de’ Medici, eletto al soglio di Pietro nel 1513 con il titolo di Leone X.
Ancora negli anni Quaranta del secolo XVI, alla vigilia del grande riassetto tridentino delle dottrine e delle istituzioni del cattolicesimo moderno, rimasero attivi paladini della riforma del mondo cristiano interessati a garantire una continuità con i fermenti di rinnovamento della stagione rinascimentale e del primo Cinquecento anteriore allo scisma protestante. Ai loro occhi, anche la profezia del beato Amadeo poteva apparire come una luce preziosa da salvaguardare, dandole valenze proporzionate alle sfide di una realtà dai contorni ormai drasticamente mutati.
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A margine della pubblicazione del volume di Giuseppe Fusari, I tempi dell’“Apocalypsis nova”. Profezia e politica nei primi decenni del Cinquecento, Marcianum Press, Venezia 2024.
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