Nessuno, tranne Washington, può sapere come e quando Israele attaccherà l’Iran. Una iniziativa che Israele ha ormai separato dalla ricorrenza simbolica del 7 ottobre, in modo da far valere l’effetto sorpresa contro Teheran. In Libano, invece, le operazioni israeliane continuano, con massicci bombardamenti aerei sui quartieri periferici di Beirut e operazioni terrestri nel sud del Paese. Un fronte che solleva molte domande, a cominciare dai veri obiettivi strategici di Netanyahu e del suo governo.
Ieri il premier israeliano è tornato a rivolgersi ai libanesi. “Avete l’opportunità di salvare il Libano prima che cada nell’abisso di una lunga guerra che porterà alla distruzione e alla sofferenza, come vediamo a Gaza”. Vale a dire: è meglio per voi se entriamo a casa vostra.
Abbiamo fatto il punto con Filippo Landi, già corrispondente a Gerusalemme della Rai e poi inviato di TG1 Esteri.
C’è un obiettivo non dichiarato dell’azione israeliana in territorio libanese?
Ritengo di sì, anche se credo che stia diventando sempre più scoperto. Anzi, gli obiettivi sono due. Uno è più politico: Netanyahu non ha nessun timore di superare linee apparentemente invalicabili, come la sovranità del Libano. È un messaggio rivolto all’opinione pubblica israeliana, anche a quella di opposizione.
Tutti uniti per difendere Israele?
Ha fatto scalpore in queste ore la dichiarazione del principale leader dell’opposizione, Yair Lapid: è tempo di invadere il Libano. Un messaggio alla pancia più che alla testa degli elettori.
E il secondo obiettivo?
È esplicitamente militare: “decapitare”, come si dice in queste ore, i vertici di Hezbollah. Ma c’è un problema, ed è strano che al governo Netanyahu facciano finta di non vederlo. Sicuramente i vertici militari lo conoscono.
Ovvero?
Le eliminazioni dei vertici di movimenti come Hamas ed Hezbollah non hanno mai avuto successo. L’uccisione dello sceicco Yassin e del suo successore Rantissi (entrambi nel 2004, nda) diede ad Hamas la maggioranza dei voti a Gaza nel 2006.
E per quanto riguarda Hezbollah?
Ci sono sicuramente nuovi leader destinati a prendere il posto di quelli fatti fuori. Nonostante siano morti Nasrallah e il suo successore, e anche i comandanti militari di molte regioni libanesi, al primo scontro sul terreno 8 soldati dell’Idf sono stati uccisi. Hezbollah, in altre parole, è operativo.
Torniamo alla domanda di partenza. Che cosa non ci sta dicendo Israele?
Dichiara di voler fare un’invasione terrestre definita “limitata”, ma in realtà, a mio avviso, vuole riproporre la stessa occupazione del Sud Libano che abbiamo visto in passato per lunghi anni. Non si può escludere che nella mente dei vertici militari sia questa la soluzione prospettata.
Si attende la rappresaglia israeliana contro l’Iran, che ieri ha minacciato di radere al suolo in 10 minuti Haifa e Tel Aviv. Che messaggi sono?
Storicamente le risposte dell’Iran ad attacchi subiti non sono mai state immediate, hanno seguito i modi e i tempi che facevano più comodo al regime. Ma i fatti di questi mesi dicono soprattutto questo, che l’obiettivo dell’Iran è mandare a Israele e Stati Uniti segnali chiari. È importante: non solo al primo, ma anche ai secondi.
Quali segnali?
Segnali che dimostrino una potenza di fuoco reale, ma anche la volontà di evitare una nuova “madre di tutte le guerre”: in questo caso non sarebbe un’invasione terrestre e un rovesciamento del regime come in Iraq, ma un’offensiva aerea, altrettanto devastante, da parte di Usa e Israele.
È una prospettiva realistica?
Qualche giorno fa il portavoce della Casa Bianca, in modo contorto ma inequivocabile, ha detto che non si può escludere che gli sforzi dell’amministrazione Biden per evitare il bombardamento dei siti che prevedono lo sviluppo nucleare iraniano… “abbiano buon risultato”.
Il senso è chiaro.
Non solo quello. Vuol dire che l’ipotesi, prima esclusa per una serie di elementi politici, militari e anche ambientali, di bombardare alcuni centri di sviluppo nucleare iraniano, negli ultimi giorni è diventata concreta a Washington.
Ma qual è il tipo di diplomazia che gli americani stanno facendo?
Apparentemente è una diplomazia che non ottiene risultati né sul cessate il fuoco a Gaza, né su quello in Libano, e neppure, in prospettiva, rispetto a un possibile inizio di conflitto regionale con l’Iran.
Finora il risultato è stato di fatto un semaforo verde all’iniziativa di Netanyahu.
È ciò che ha fatto notare il Papa, accusando l’incapacità delle grandi nazioni a intervenire per rimettere il negoziato al centro della crisi. Ma è un elemento ora percepito con chiarezza anche dai leaders dei cosiddetti Paesi arabi moderati: la Giordania innanzitutto, poi il Qatar, grande alleato Usa, gli Emirati e l’Egitto.
A cosa ti riferisci esattamente?
A margine dell’ultima Assemblea Onu c’è stato un incontro tra Blinken e diversi esponenti di Paesi arabi. Un incontro “rituale”, si direbbe in questi casi, che invece stavolta sarebbe andato diversamente. Secondo alcune indiscrezioni, all’ennesima dichiarazione del segretario di Stato che gli Usa lavorano per il cessate il fuoco, gli interlocutori sono stati molto chiari nel ricordargli la mancanza di ogni risultato sul piano diplomatico.
Quindi?
I governanti arabi moderati hanno fatto capire agli americani di avere capito bene il gioco. I denari parlano chiaro: gli Usa hanno dato direttamente a Israele poco meno di 18 miliardi di dollari in armamenti e munizioni, a cui si aggiungono altri 5 miliardi in navi e aerei Usa nel Mar Rosso in funzione anti-Houthi.
Aiuti su aiuti. Gli Stati Uniti hanno mai fatto diversamente?
Nel ’91, dopo la fine della guerra del Golfo, Israele era in grave crisi economica e sotto la pressione dell’intifada. Di fronte al rifiuto di Shamir di sedersi alla conferenza di pace di Madrid, Bush padre minacciò lo stop ai finanziamenti e questo fece cambiare opinione al governo ebraico. Si tratta di volerlo.
Nella prima fase della risposta a Gaza, Netanyahu era molto impopolare e molti osservatori convenivano sul fatto che la lunga rappresaglia gli servisse per restare al potere. È ancora così?
In Israele le operazioni di consenso possono giocare brutti scherzi. Mi viene in mente l’Operazione Piombo fuso, sempre contro Hamas, che si concluse nel febbraio 2009, prima delle politiche di marzo. Quell’operazione militare del governo Olmert era finalizzata politicamente anche a catturare l’elettorato di centrodestra, ma quegli elettori, anziché votare per Kadima, scelsero il partito di Netanyahu. Oggi il problema riguarda l’opposizione: in Israele più che altrove chi non ha una politica chiara e si adegua alle circostanze rischia di aiutare il proprio antagonista.
Mettiamo per un attimo da parte l’Iran. Si può escludere che Israele abbia invaso il Libano non solo contro Hezbollah, ma anche per prendersi nuovi territori?
Purtroppo è un’ipotesi sensata, legittima, che non dovrebbe stupire chi ha seguito le ultime elezioni israeliane. Nei programmi elettorali di Ben-Gvir e Smotrich era previsto un ridimensionamento della presenza dei palestinesi, sia in Israele che nei territori. L’obiettivo della destra religiosa è una soluzione territoriale, politica e storica della questione israelo-palestinese che vada oltre il cosiddetto “status quo” protratto per troppo tempo da Netanyahu. La conferma è che si va verso la chiusura di tutti i campi profughi in Cisgiordania, ma i palestinesi non vengono ricollocati in Cisgiordania, vengono spinti ad uscire dalla West Bank.
Verso la Giordania.
Esatto. Un Paese arabo moderato che ora è minacciato da questa politica, e che potrebbe veder crollare nei prossimi mesi antichi equilibri se la comunità internazionale non interviene.
Unifil deve rimanere?
Per Israele no, ma un ritiro oggi sarebbe un colpo durissimo per l’autorevolezza dell’Onu.
(Federico Ferraù)
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