Ai lettori più attenti non sarò sfuggito, nonostante una limitata diffusione mediatica, che lo scalcagnato mondo giudiziario è stato colpito da un vero tsunami, la cui portata potrebbe essere destinata a salire nel corso delle prossime settimane. Il tribunale di Brescia ha infatti condannato a 8 mesi i pubblici ministeri di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro per rifiuto di atti d’ufficio nell’ambito del processo sulle presunte tangenti versate da ENI al governo nigeriano, accuse rivelatesi poi del tutto infondate nonostante – questo è il punto – i pubblici ministeri avessero cercato di nascondere al tribunale elementi di prova a favore degli imputati.
La condanna inflitta all’ex procuratore aggiunto a capo del pool reati internazionali della Procura di Milano, De Pasquale, e al pm che ora è sostituto alla Procura europea, Spadaro, rappresenta per molti versi la nemesi di Tangentopoli. I fatti contestati fanno riferimento al mancato deposito alle difese del processo a carico dei vertici ENI degli elementi raccolti da un altro pm della stessa procura di Milano, Paolo Storari, durante l’inchiesta parallela (informalmente denominata “Falso complotto ENI”), il cui processo risulta ora in corso.
In particolare, i giudici di Brescia hanno ritenuto i due pm colpevoli per l’omesso deposito di tre documenti di 88 pagine che avrebbero dimostrato come Armanna – ovvero l’ex legale ENI e principale accusatore della società – fosse un calunniatore-depistatore.
Dall’indagine di Storari era emersa l’esistenza di un rapporto patrimoniale di 50mila dollari fra Armanna e un teste invocato a confermarne le accuse a ENI, oltre al preventivo indottrinamento di un uomo d’affari nigeriano, un altro teste dell’accusa. Come non bastasse, il collega Storari aveva altresì accertato che Armanna avesse contraffatto due chat, una su Telegram depositata nel processo ENI-Nigeria e una su Whatsapp veicolata a un quotidiano, allo scopo di accreditare l’esistenza nel 2013 di interlocuzioni dalle quali risultasse che l’amministratore delegato ENI e il capo del personale avessero tentato di subornarlo per comprarne la ritrattazione; trucco tutto sommato facilmente smascherato grazie a banali accertamenti effettuati grazie a Vodafone, dai quali era emerso che i numeri telefonici ascritti da Armanna ai due vertici dell’ENI erano nel 2013 utenze inattive, non in grado di generare traffico. Così inquadrate le contestazioni addebitate ai due pm condannati, plurimi piani di riflessione si offrono all’attenzione dell’opinione pubblica.
Una prima analisi deve essere condotta sul piano tecnico, sperando di rendere il discorso più intelligibile ai non addetti ai lavori. Chi scrive non conosce nel dettaglio gli atti del processo, ma ha tuttavia ben chiaro il principale insegnamento ricevuto dal suo maestro della procedura penale, ovvero quello relativo alla previsione codicistica di cui all’art. 358 c.p.p. secondo la quale il pubblico ministero, oltre a compiere ogni attività necessaria per esercitare l’azione penale, svolge altresì accertamenti a favore dell’indagato. Questa norma, ci insegnava il compianto maestro, segna la distanza fra il nostro sistema processuale e quello americano, in cui il pm è parte a tutti gli effetti, non essendo gravato da un analogo obbligo. Su questa norma si fonda ciò che la magistratura stessa ama definire la cultura della giurisdizione che ne impedirebbe la separazione delle carriere. Se quindi questa vicenda segna un’ulteriore pagina nera per la credibilità della magistratura, essa apre ancora di più la stura tanto alla rivisitazione dell’ultimo trentennio della storia giudiziaria del nostro Paese, quanto alla realizzazione della vituperata separazione delle carriere.
Francamente risulta molto poco convincente la tesi difensiva dei due pm, secondo la quale l’art. 430 c.p.p. al primo comma dice che durante il processo le parti, e dunque i pm, “possono compiere attività investigativa d’indagine”, quindi soltanto una facoltà, che non può in alcun modo essere trasfigurata in un obbligo giuridico e pertanto De Pasquale e Spadaro rivendicano di aver valutato di non avvalersi della facoltà di compiere quella attività investigativa, sicché, non avendo usato la facoltà di svolgere attività di indagine, neppure sarebbe valso per loro il secondo comma dell’art. 430, cioè l’obbligo giuridico di deposito degli esiti alle parti, che grava sul pm solo se abbia utilizzato la facoltà di fare quell’attività di indagine.
Quell’attività di indagine frutto delle segnalazioni del collega Storari essi avevano invece il dovere di compierla, proprio sulla scorta della previsione dell’art. 358 c.p.p. L’errore è talmente marchiano che si schiude un secondo piano di analisi che attiene al dubbio che la condotta accertata dai giudici di Brescia non sia isolata, né in seno a quella procura della Repubblica da cui tutto ebbe origine, né in tante altre.
Qui entra in gioco quella cultura del sospetto che è stata alimentata per anni proprio da quegli ambienti giudiziari. Personalmente, da studioso oltre che da pratico, ho sempre nutrito, insieme a tanti altri, per la verità, il sospetto che quell’art. 358 c.p.p. fosse poco noto in certi ambienti giudiziari. Dovremmo essere orgogliosi di aver finalmente ottenuto la prova di tale ignoranza, perché al di là della colpevolezza, sono stati loro stessi ad affermarlo, ma in realtà si finisce con l’essere sopraffatti da un certo senso di angoscia. Abbiamo le prove che il sistema processuale del 1988 è fallito perché i suoi stessi interpreti principali lo hanno stravolto, piegandolo a fini diversi da quelli per cui era stato concepito ed ideato.
Esiste poi ancora un altro piano di analisi, per nulla secondario, ovvero quello da cui emerge l’esistenza di grandi conflittualità interne agli uffici giudiziari italiani e in particolare in quello di Milano, teatro delle più grandi inchieste della recente storia del nostro Paese. Viene da pensare che quel “nido di vipere” che aveva invocato Borsellino a proposito della procura di Palermo si sia radicato anche a Milano, generando un ambiente in cui gli uni non si fidano del lavoro di chi occupa la porta accanto. Anche qui la prova ce la forniscono gli stessi imputati, secondo cui il materiale ricevuto da Storari era stato da loro valutato alla stregua di chiacchiere, scritti informi, confusi ed indefiniti, per di più riversato da un collega che percepivano non solo come un pm ignorante della complessità intercontinentale di ENI-Nigeria, ma anche come un nemico interno alla Procura, “uno stalker” autore di “una contro-inchiesta” volta a danneggiare il lavoro dei colleghi e minare gli esiti del processo. Certo, colpisce che in ufficio giudiziario di quella importanza si indaghi sulle indagini dei colleghi: immaginiamo che il cittadino comune si chieda se ciò possa considerarsi normale. È certamente ancora meno normale che non si rivolga più di una censura al procuratore capo che quegli uomini avrebbe dovuto coordinarli. Egli non può considerarsi estraneo a questo sfascio.
Esiste poi un ulteriore piano di riflessione che attiene all’immediato futuro dei due condannati. Come evidenziato anche da Paolo Mieli, è lecito chiedersi come essi possano continuare ad esercitare la loro funzione dopo essere stati condannati per avere nascosto prove favorevoli a imputati poi assolti. Posto che il principio di non colpevolezza si applica anche a loro, che nei successivi gradi di giudizio avranno la possibilità di far valore le proprie ragioni, non pare peregrino ritenere che il Csm dovrebbe, con estrema urgenza, trasferirli d’ufficio a un’altra funzione. Certo, De Pasquale ha già visto non confermare la nomina a procuratore aggiunto, ma eleganza, dignità e moralità dovrebbero senz’altro spingere entrambi a cambiare sede, ruolo, funzioni e senza che ciò possa in alcun modo essere visto come un’ammissione di colpevolezza. Al contrario, come invece ha scritto Francesco Merlo, essa costituirebbe una prova di intelligenza, con un valore di riscatto che, tra l’altro, li aiuterebbe a difendersi meglio.
Insomma, abbiamo finalmente compreso che il pm all’“americana”, che con gli elementi a sua conoscenza fa quello che vuole nel proprio processo, in Italia non si può fare. Ma la cosa non dovrebbe giungere come una novità, rappresentando, ribadiamolo, semplicemente ciò che prevede il codice di procedura penale ma che non è di comune applicazione, come d’altronde potrà facilmente confermare chi sfortunatamente frequenta quotidianamente i palazzi di giustizia.
La gravità di quanto emerge da questa vicenda giudiziaria va ben oltre il destino dei due condannati e abbraccia un sistema nella sua pressoché interezza. E allora non sarà un caso, ma proprio ieri la Commissione Affari costituzionali della Camera ha dato il suo primo sì alla riforma della separazione delle carriere di magistrati, adottando il ddl del governo, fissando il termine per gli emendamenti al 23 ottobre. In fondo, De Pasquale e Spadaro erano semplicemente troppo avanti.
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