Ha detto sacrifici? Sì, l’ha detto. Sacrifici per tutti. Apriti cielo. Il 3 ottobre, l’inusuale (fra i politici e non solo) franchezza del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha fatto aprire le cateratte. Tutti, s’intende pressoché tutti i politici, ad accusare (se dell’opposizione) o a rassicurare (se della maggioranza): ad accusare, i primi, il Governo inetto e cattivone di preparare tagli e tasse; a rassicurare che, ma va’, tagli e tasse noi? Giammai. Sono fake dell’opposizione.
Curiosamente la parola sacrifici è stata pronunciata anche dai leader della Francia e del Regno Unito. La verità è che noi galleggiamo da un vita su un mare di debiti e potremmo di quando in quando rischiare di affogare, ma anche loro non stanno tanto bene. Facendo due conti della serva (absit iniuria alle colf), e arrotondando molto le cifre, l’Italia crea 2mila miliardi e rotti di ricchezza (il Pil annuo) e ha un debito poco sotto i 3mila. Sul 140 per cento. Peggio, solo la Grecia con 159. Parigi e Londra sono sopra il 100 per cento, come pure, in Europa, Belgio e Spagna. Non ci fossero gli interessi sul debito andremmo anche bene: entrano nelle casse dello Stato 650/700 miliardi (che però il Superbonus del 110% eroderà mica poco) e ne escono un po’ meno per la spesa pubblica corrente (buona parte per il welfare). Ma ci sono sempre un centinaio di miliardi di interessi sul debito da pagare. O si spende meno, o si devono cacciare più soldi. O entrambe le cose. Fare finta di niente sarebbe rovinoso.
Il debito viene da lontano. Dalla metà degli anni 60 del secolo scorso, fine del boom economico, governi di centro-sinistra, crescita della spesa pubblica per attrezzare uno Stato sociale, rispondere alle richieste dei lavoratori, garantire la pace sociale. Debito buono, direbbe forse Draghi. Negli anni 80 e primi 90 la spesa pubblica diventa sempre più clientelare, usata anche per ottenere il consenso da parte di gruppi di interesse. Un po’ di rigore a cavallo del secolo per entrare nell’euro, poi la crisi del 2008, poi il Covid, poi la guerra in Ucraina… Intanto il debito da “clientelare” è diventato “finanziario”, per stare alla classificazione che ne ha proposto Giulio Tremonti già nel suo La riforma fiscale, Mondadori 1995, pp. 40 ss. I colossali interessi sul debito, appunto.
Tutto questo non per addentrarci nei problemi della finanziaria, ma per provare a capire perché… mai dire sacrifici? Un elemento della spiegazione è probabilmente, come accennato, la logica politica della cattura del consenso. A costo di non dire la verità, semplicemente tacendola. Non solo i politici. Tutti quelli, opinionisti e poteri, che via via hanno cercato di farci credere (ahimè, riuscendoci) che il problema era (praticamente solo) la corruzione dei partiti (Tangentopoli, da cui la fine dei partiti dell’arco costituzionale tranne il Pci), il privilegio della classe politica (operazione “la casta”, da cui il successo del vaffa di Grillo) o i vitalizi dei parlamentari.
Ma forse non sono solo i politici a non voler sentire la parola sacrifici: è la società intera. Annotava il filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti nel suo La parola ai giovani: “Le precedenti generazioni vivevano in una società povera, il messaggio che la famiglia dava ai propri figli era quello del sacrificio, e lo stesso messaggio era veicolato dalla società.. oggi la società dice loro [ai giovani] di divertirsi, consumare, fare quello che vogliono… Questa è la prima generazione che non può contare sull’esperienza dei genitori”. Il sacrificio non può aver senso nel consumismo e nel nichilismo. Per Herbert Marcuse il consumismo è la forma del controllo sociale in cui l’uomo è alienato nell’illusione che il possesso dei beni materiali è il mezzo per la realizzazione della felicità. Il filosofo sud-coreano Byung-chul Han (che vive in Germania e ha avuto successo anche in Italia) collega il rifiuto del sacrificio alla paura generalizzata del dolore (algofobia), e della morte, che contrassegna l’epoca del neo-liberismo odierno. Il neo-liberismo esalta l’uomo sempre performante, e la “democrazia palliativa” – così la definisce Byung-chul Han – gli promette di sbarazzarsi di ogni negatività. Diciamo con parole nostre, di ogni bisogno, mancanza, attesa. Di ogni sacrificio, perché non ci può essere un bene più grande del consumo per cui “valga la pena”. Un sistema che anestetizza: appunto, palliativo.
Sorge qui la figura del fantasma sacrificale, suggerisce nel suo Contro il sacrificio Massimo Recalcati. L’uomo vorrebbe ottenere tutto; non potendo e per evitare la frustrazione, sacrifica il desiderio. Questo è il sacrificio cattivo. Non poi tanto diverso dall’anestesia. Viceversa è positivo il simbolo sacrificale: riconoscere la necessità della rinuncia per affermare qualcosa che dà senso e gusto alla vita. In questa prospettiva il sacrificio apre alla gratitudine nei confronti di un Altro per ciò che si è, come la fonte di ogni bene”, annota Giovanni Cucci nella recensione del libro apparsa in Civiltà Cattolica.
Dentro questa consapevolezza, il sacrificio non contraddice la vita, non è negatività ma rapporto positivo con la realtà. Mauriac: “La croce si oppone alla vita quale la sogniamo. Non si oppone alla vita tale e quale è”. Senza sacrificio non si genera nulla di nuovo. Non si genera una comunità solidale ma solo un individualismo condominiale. T.S. Eliot: “Credo che la stagione della nascita sia la stagione del sacrificio”.
Certo, qui è questione di educazione della persona e del popolo, non di legge finanziaria.
A proposito: le citazioni di Eliot e Mauriac sono riprese entrambe da L. Giussani, Dare la vita per l’opera di un Altro (Bur, pag. 114).
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