Chi non ricorda cosa succedeva nelle dispute bambine, quando uno le buscava ma immediatamente si rialzava gridando “fatto niente”? Zuffe tra ragazzini, sì, che però si allineano incredibilmente a quanto sta succedendo in Medio Oriente, con Israele divenuta, alla fine dello scorso settembre, target di circa 200 missili sparati dall’Iran, e l’Iran colpito ieri notte da almeno due ondate di raid aerei israeliani, ed entrambi i governi a parlare subito alle agenzie di “danni limitati”, con Tel Aviv a promettere però feroci vendette se l’Iran vorrà reagire e Teheran a giurare che mille missili balistici sono già pronti in caso di nuovo attacco.
La ritorsione israeliana all’attacco missilistico iraniano, dopo tanti annunci, è alla fine arrivata, con tempi e modi che fanno pensare ad un compromesso tra i falchi del governo Netanyahu e il dipartimento di Stato statunitense, cioè con obiettivi focalizzati su basi militari (almeno due le vittime, accertate finora), postazioni antiaeree e (informazione non verificata) su centrali di tracciamento radaristico e satellitare. Quelle strutture, insomma, che sfruttando anche le coordinate fornite da satelliti russi, avrebbero indirizzato missili e droni armati dei ribelli yemeniti Houthi verso i carghi in transito nel Mar Rosso, o addirittura verso Eilat, l’unico sbocco israeliano su quelle acque, come informa il Wall Street Journal.
Evitati dunque gli impianti petroliferi, quelli di produzione d’energia e ancor più quelli per l’arricchimento dell’uranio, dove l’Iran sarebbe in dirittura d’arrivo per la produzione di ordigni nucleari, un percorso più volte smentito dagli ayatollah ed invece sempre denunciato dallo Stato ebraico. Una prudenza fortemente spinta dagli Usa, che temono una pericolosissima, nuova escalation che potrebbe portare direttamente ad uno scontro globale.
Quell’aiutino fornito dalla Russia ai miliziani proxy islamici pesa come un macigno sulle strategie e sulle posture geopolitiche delle cancellerie di mezzo mondo. AdnKronos riporta la tesi di Alexander Gabuev, direttore del Carnegie Russia Eurasia Center, un think tank con sede a Berlino: “Per la Russia qualsiasi focolaio in qualsiasi parte del mondo è una buona notizia, perché distoglie l’attenzione del mondo dall’Ucraina e da dove gli Stati Uniti devono impegnare risorse (sistemi Patriot o proiettili di artiglieria). Con il Medio Oriente in gioco, è chiaro dove sceglieranno di investire gli Stati Uniti”, se non altro per proteggere gli storici alleati israeliani e difendere la loro presenza d’area. E, non ultimo, assicurarsi che gli approvvigionamenti energetici dal Golfo non subiscano interruzioni.
Così, le forze di difesa israeliane IDF hanno dichiarato che “l’esercito ha effettuato una serie di attacchi contro obiettivi militari in Iran in risposta ai continui attacchi da parte del regime iraniano”, mentre una raffica di missili sparati dagli Hezbollah libanesi hanno ucciso tre israeliani, ferendone altri sette, nella città settentrionale israeliana di Majdal Krum. Il tutto alla vigilia del prossimo vertice, in Qatar, tra Mossad e i capi dell’intelligence egiziana, brandelli residui di tentativi diplomatici (finora falliti) per arrivare almeno a una tregua.
Una tregua, però, che sembra sempre più improbabile, anche se Sky News Arabia ha riferito che l’Iran (dopo aver subito gli strike dell’IDF) avrebbe informato Israele, tramite un mediatore straniero, che non avrebbe risposto all’attacco. I missili di Teheran e quelli ritorsivi di Tel Aviv sarebbero stati, insomma, simili a quelle mosse e contromosse tanto care alle faide tra famiglie mafiose e nemiche: tu ammazzi un mio affiliato e io ne ammazzo uno dei tuoi. Faide solitamente infinite, come la guerra strisciante che l’Iran, pavidamente restando nelle retrovie, ha sempre fatto combattere contro Israele dalle sue milizie affiliate, gruppi fanatici e terroristi che hanno segnato il destino della striscia di Gaza (Hamas), di buona parte del Libano (Hezbollah), della Siria e dell’Iraq (Kataib Hezbollah), e dello Yemen (Houthi), tutti paramilitari uniti nella muqawama, la resistenza all’oppressione.
Oggi siamo al 386esimo giorno di guerra dichiarata, esplosa in seguito a quella feroce azione dei terroristi di Hamas che portò a 1.200 morti israeliani e altri 200 presi in ostaggio. Una guerra che ha distrutto quasi per intero Gaza e mietuto oltre 41mila palestinesi.
Oggi ci si chiede se ne valeva la pena: lo si chiede a tutti, in primis ad Hamas, che avrebbe dovuto proteggere i residenti ed invece s’è rifugiata in tunnel e bunker costruiti sotto ospedali e case grazie ai soldi dirottati dagli aiuti internazionali, lasciando ricoverati e civili a fungere da scudi umani, carne da macello sacrificata in virtù di un odio folle, costantemente alimentato dalle dottrine iraniane. Ma lo si chiede anche ad Israele, spinta da un governo mai così falco come in questi ultimi anni, e impantanata in un confronto necessariamente strabico, un occhio a sud, uno a nord, e adesso distratto anche dal fronte iraniano. Tel Aviv finora è riuscita a creare nella Striscia un cumulo di macerie e una quantità di superstiti già pronti a votarsi al martirio terrorista, perpetuando le condizioni sulle quali Hamas ha sempre fatto proselitismo, spacciando un po’ di welfare (più di facciata che altro), un po’ di islamismo, un po’ di atavica lotta al sionismo. Per quanto riguarda il futuro, nessun traguardo sembra vicino, e nessuna strategia è stata ancora delineata chiaramente, se non quei vaghi riferimenti che si fanno in Occidente sulla necessità dei due Stati.
Oggi Rafah, Khan Yunis, Bayt Lahiyah e altri villaggi di Gaza Strip somigliano al mondo visto in un episodio famoso della serie tv “The twilight zone” (Ai confini della realtà) che fu trasmessa negli Usa alla fine degli anni Cinquanta. Nel 1962 arrivò in Italia, trasmesso dalla Rai, l’episodio “Time Enough at Last” (titolo italiano: Tempo di leggere), dove un impiegato di banca con una smisurata passione per la lettura, ostacolata da tutti, durante la pausa pranzo si rinchiude nella cassaforte della banca per leggere indisturbato. Ma un giorno, finita la pausa, aprendo il portello del caveau non ritrova più il mondo che aveva lasciato, distrutto probabilmente dall’olocausto nucleare.
Oggi il mondo di Gaza è ugualmente distrutto: chi vorrà incaricarsi di ricostruirlo?
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