“Una primavera perenne, come nel beato Elisio, riveste di amabile giovinezza la sua matura affascinante virilità e aleggia con grazia delicata sulla superba struttura delle sue membra”. Così Johann Joachim Winckelmann, fissando le qualità del bello ideale, “nobile semplicità” e “calma grandezza” le rintracciava in quello che per lui, e per intere generazioni di artisti, maestri e critici d’arte, era l’icona della bellezza assoluta: l’Apollo del Belvedere, la statua marmorea, copia di un bronzo del IV secolo attribuito allo scultore greco Leochares, scoperta nel 1489 sul colle Viminale ed entrata a far parte della collezione vaticana per provvidenziale volere di Giuliano della Rovere.
Il futuro Giulio II la volle per impreziosire il Cortile ottagonale del Bramante, dove già si mostravano le statue che celebravano le origini mitiche della Capitale. Il volto dalla perfezione classica, il corpo vigoroso e plastico, la posa dinamica, che coglie il dio mentre contempla l’esito del dardo lanciato contro Pitone, la testa incoronata da riccioli, anticamente dorati, sono la sintesi della bellezza portata alla soglia dell’eterno. Dopo 5 anni e un restauro che ha coniugato rigoroso studio filologico e moderne tecnologie, l’Apollo è stato ricollocato al suo posto, negli spazi esterni dei Musei Vaticani, di nuovo visibile a visitatori e pellegrini. Il sapiente intervento che ha coinvolto tecnici, specialisti, maestranze e studiosi, si era reso necessario perché l’Apollo aveva mostrato preoccupanti fragilità. Proprio come un atleta usurato dagli anni e dagli sforzi, cedeva in potenza e stabilità: la massa corporea era insidiata e minata dalla caducità, che sempre e comunque accompagna ciò che è soggetto alle leggi del tempo e dello spazio. Crepe, “fratture”, lesioni all’altezza delle articolazioni, in particolare caviglie e ginocchia, nei secoli, avevano reso necessari degli interventi, con persino l’inserimento di “protesi” in ferro per garantire stabilità e solidità all’opera.
La lunga vita dell’Apollo, uscito da una bottega copistica romana del II secolo, ha registrato spostamenti, manomissioni, viaggi, come quello napoleonico a Parigi alla fine del Settecento o quello negli Stati Uniti, alla fine del secolo scorso. Resiliente, ha affrontato ogni onta e affronto, persino quello portato dagli ultimi devastanti terremoti che hanno interessato l’Italia centrale. Ma alla fine il check-up si è imposto, con la ragionevole decisione di operare sulla perfezione, per puntellarne il mito.
Così la squadra di ingegneri, restauratori e scienziati dei Musei Vaticani ha optato per inserire un sostegno, senza deragliare troppo dalla tradizione, che potesse assicurare vita futura alla statua. Già Antonio Canova aveva caldeggiato un “ancoraggio” dell’Apollo alla nicchia del Belvedere, dove si ergeva. Ed effettivamente così aveva resistito stoicamente per anni, infilzato da un tiraggio in ferro posizionato al centro della spalla. La causa dell’instabilità era, ed è, da ricercare nelle tensioni contrastanti, causate da un baricentro “sbilanciato”: il marmo, materiale molto più complesso del bronzo, rende la postura del dio saettante, sebbene scenografica, molto ardita e cagionevole, pericolosamente inclinata verso il lato sinistro, appesantito dalle sontuose pieghe del mantello. Così, utilizzando fori e incassi già esistenti, si è posizionata un’asta in fibra di carbonio, per intenderci lo stesso materiale usato per gli alberi delle barche a vela, allo scopo di ridurre di circa 150 chili il peso che grava sulle fragili caviglie e sul tronco. Con l’occasione si è deciso anche di fornire il dio della mano sinistra mancante sin dal suo ritrovamento. O meglio, di cambiare il braccio fatto dal Montorsoli nel 1533, con uno molto più rispondente all’originale. Gli specialisti hanno ricostruito l’arto mancante sulla base dei calchi ritrovati tra le rovine del Palazzo imperiale di Baia, a nord di Napoli, probabilmente appartenenti ad un’officina che aveva lavorato sugli originali bronzi greci e che forniva copie in marmo dei capolavori all’intera zona flegrea.
Ci si può legittimamente chiedere il perché di tanti appassionati sforzi per restituire integrale perfezione all’Apollo. La risposta non la dà Winckelmann, per cui questa statua “supera tutte le altre immagini del dio di tanto, di quanto l’Apollo di Omero si eleva al di sopra di quello descrittoci dai poeti venuti dopo di lui”, ma la provocazione che l’inutile Bellezza porta alla nostra vita. Per scoprirlo si può partecipare ad uno dei cenacoli teologici-letterari, presso la casa San Giuseppe a Roma, un lunedì al mese da ottobre a giugno, per capire come e perché il Bello riempie l’esistenza.
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