La magica scena iniziale, con la splendida carrozza che arriva via mare per la nascita di Parthenope, la protagonista del film omonimo dell’osannato Paolo Sorrentino, ci colpisce per i colori e il ritmo rallentato: anche la fanciulla in realtà non potrà poi che venire alla luce in mare, come suggerisce il mito originario della Sirena fondatrice della città, di cui porta il nome e che in qualche modo incarna. Così il regista ci presenta la misteriosa e incantevole ragazza napoletana (con lo sguardo e le movenze seducenti di Celeste Dalla Porta, milanesissima però) la cui storia, scandita da una cronologia sommaria che va dal 1950 al 2023 (non a caso anno del terzo scudetto del Napoli), s’identifica con il volto ambiguo e ammaliante della città partenopea.
I suoi incontri, le sue avventure, le sue aspirazioni e le sue sconfitte vorrebbero perciò ricostruire l’identità del capoluogo campano che, con le parole di Céline che aprono il film, è metafora del cammino dell’esistenza: “Come è enorme la vita, ci si perde dappertutto”. Ecco, forse questa è la chiave della storia narrata, zeppa paradossalmente di frasi a effetto (“è impossibile essere felici nella più bella città del mondo”) e di risposte pronte di Parthenope.
In effetti Sorrentino sembra non sapere esattamente cosa vuol dirci della bellezza, quindi dello splendore di Napoli e nemmeno della vita cui continuamente allude. Perciò ci mostra la sua città diremmo quasi per accumulo di immagini, senza dare il tempo al pubblico di riflettere su quelle massime sentenziose, aforismi alla buona (non sempre di particolare profondità) che costellano le varie scene. Scene tutte fotografate benissimo, sia nella luce azzurra abbagliante del mare stupendo di Posillipo e ancor più dei faraglioni di Capri, sia negli interni sontuosi di ville nobili, chiese barocche o vicoli malfamati con i loro abitanti derelitti, mai piegati però totalmente dal destino avverso. Ma la travolgente concatenazione di luoghi mitici e il turbinio di personaggi teatrali, quasi impediscono allo spettatore una riflessione o almeno una commozione autentica per quelle esistenze così infelici e a tratti grottesche, che pur aspirerebbero a una gioia vera, quella intravista solo nella meravigliosa età della giovinezza. Ma subito perduta per sempre.
Seguendo Parthenope (che, per essere sinceri, pur nella sua indubbia avvenenza non sembra rispecchiare davvero il languore ammaliante e sofferto di Napoli e delle sue fanciulle) si incontrano le mille facce della città. Affiora anche la sete di conoscere e di sperimentare della protagonista che, come lei stessa ammette, “non sa niente ma le piace tutto” e “che non si vergogna mai”. Quindi, che incontri il famoso scrittore omosessuale alcolizzato e depresso John Cheever, o il boss camorrista che le mostra l’orrore del tentativo della “grande fusione” di due famiglie mafiose, con l’esibizione pubblica dell’atto d’amore di due giovani, incaricati di interrompere così una faida interminabile; che si intrattenga morbosamente col vescovo che vuole svelarle la meraviglia del tesoro di San Gennaro facendoglielo indossare in modo sacrilego, o assista al rito per troppi napoletani solo superstizioso del miracolo del sangue, lei sembra sempre soprattutto preoccupata di lanciare intorno a sé il suo sguardo seducente, e di sentirsi guardata con desiderio. Eppure è eternamente insoddisfatta, tormentata, con l’immancabile sigaretta in bocca che non si consuma mai. Ma l’inquietudine non è forse inevitabile conseguenza della tragedia che l’ha segnata nella sua spumeggiante giovinezza quando lei, il fidanzato Sandrino e l’irrisolto fratello Raimondo “sono stati bellissimi e infelici” nella loro incosciente e trasgressiva vacanza caprese?
Il fratello che l’ammirava perdutamente non ha saputo rinunciare alla tenerezza della sorella e lei ne porterà il rimorso colpevole per sempre. Addirittura il sontuoso funerale del fragile Raimondo sul celebre lungomare verrà grottescamente interrotto dalle necessarie disinfezioni per contrastare l’epidemia di colera. Come a Parthenope sfuggono la gioventù, la falsa spensieratezza e infine la felicità, così anche alla sua città mancano la gioia, il coraggio e forse anche la sincerità. L’invettiva tremenda della pseudo-Loren, interpretata efficacemente da Luisa Ranieri, è forse il momento più disperato e insieme illuminante: “Il problema siete voi napoletani. Siete depressi e non lo sapete. Siete poveri, vigliacchi, piagnucoloni, arretrati, e sempre pronti a dare la colpa a qualcun altro. Io me ne torno al Nord. Mi sono salvata, ma voi siete morti”. Che sia questa la confessione di Sorrentino, rapito e insieme sopraffatto dalla sua Napoli?
Per la verità, tra le maschere in scena c’è pure un bel personaggio, magistralmente interpretato da Silvio Orlando, il burbero professor Marotta, docente di Antropologia, che affascina la diligente Parthenope (tutti 30 e lode) pur non sapendo o non volendo neppure dare la definizione della materia che insegna, perennemente snervato dall’impreparazione dei suoi studenti. Lui riconosce l’intelligenza della protagonista, ma non si invischia nelle maglie del suo potere seduttivo. Anzi, le svela un lato umano (ma surreale) della sua malinconica ruvidezza: l’affetto custodito con discrezione per un figlio mostruoso ma dolcissimo, fatto di “acqua e sale”.
Solo alla fine rivelerà alla studentessa modello il vero significato di “Antropologia”: ha il compito di insegnare a “vedere” e quindi non innanzitutto a “essere guardati”, come la ragazza ha forse maldestramente inteso, nella sua effervescente giovinezza, quando in casa lasciava in giro, con maliziosa indifferenza, i bikini colorati che accendevano le fantasie del fratello e del fidanzato. Ma quando, nella scena finale del film, Parthenope torna nella sua città natale dopo un lungo esilio (volontario) a Trento, per ereditare la cattedra nell’università del suo ammirato professore, da donna ormai matura (interpretata da Stefania Sandrelli) sembra accontentarsi, per trovare pace, della nave-carro biancoazzurra dei tifosi del Napoli, che per strada festeggiano chiassosi e felici lo scudetto. Sorride, apparentemente placata e libera; ma in fondo, perché?
Ecco, lo spettatore esce dalla sala buia avendo “visto” molto, desiderando forse andare o ritornare in quella città bellissima; ma di Napoli, della vera bellezza e tutto sommato della vita, non può dire più di quanto già sapesse.
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