La pandemia appartiene ai ricordi. È passata ufficialmente solo un paio d’anni fa, ma molti, nel riferirsi al Covid-19, ne parlano come di una cosa lontana, di un periodo storico. Solo ogni tanto, qualcuno a cui capita un’influenza e ricerca un tampone per il Covid, lo applica e dice fiero “ho il Covid”, come se volesse dire “anch’io sto per avere un’avventura”.
L’avere rimosso ciò che è successo durante la pandemia non vuol dire averla dimenticata. Anzi, la pandemia è un punto fisso nella memoria di tutti. Nel parlare comune, c’è un prima e un dopo la pandemia. La pandemia ha dunque cambiato le prospettive del mondo? Se sì, in quali direzioni?
Per cercare di capirlo, alcuni gruppi di studio delle Università di Padova, Chieti-Pescara, Torino, Bari e Napoli-Federico II, verso la fine della pandemia, hanno svolto una ricerca empirica intervistando con un questionario elettronico, inviato tramite e-mail, un campione di popolazione italiana. Il questionario comprendeva anche domande su chi si era comportato in modo positivo durante la pandemia. Le entità poste sotto giudizio erano la scienza medica, le istituzioni sanitarie nazionali ed internazionali e l’insieme delle persone con cui la gente era stata in relazione durante quel periodo.
Conviene fare un passo indietro per ricordare quali sono stati i protagonisti della pandemia, al di là del virus. I protagonisti indiscussi sono stati gli addetti alle cure sanitarie, i canali di comunicazione a distanza, le famiglie e le comunità locali. Infatti, chiunque sapesse, o pretendesse di sapere, come doveva essere trattato il Coronavirus e quanto sarebbe durata la pandemia ha detto la sua che, amplificata da televisioni e social media, ha generato una notevole confusione nelle persone che sentivano per la prima volta termini e ragionamenti al di fuori della loro portata. Poi sono arrivati i cosiddetti lockdown, che hanno obbligato la gente a stare in casa per lunghi periodi.
Infine, sono arrivati i vaccini e la gente è corsa per due volte a vaccinarsi. Le cose certo migliorarono dal punto di vista sanitario, ma ci si ammalava lo stesso perché il virus mutava, cercando di schivare i vaccini. Così la gente ha smesso di ricorrere ai vaccini e sono stati pochi quelli che hanno fatto la terza vaccinazione e pochissimi quelli che ne hanno fatto una quarta (e abbiamo dovuto smaltire milioni di dosi di vaccino inutilizzate). Poi, finalmente, il virus ha deciso che la sua opera era compiuta e, come spesso succede nelle epidemie, è uscito di scena in sordina. Questa è, in estrema sintesi, la rappresentazione della pandemia dal punto di vista della gente.
Volevamo quindi conoscere se e come la pandemia avesse cambiato i giudizi della gente in merito a scienza, istituzioni e relazioni sociali. Un sommario dei risultati è presentato nella Tabella 1, dove la prima colonna di dati rappresenta il valor medio del gradimento espresso dal campione di italiani e la seconda la percentuale di gradimento per le entità sociali valutate. La seconda colonna rappresenta il medesimo risultato della prima, ma limitato ai valori positivi.
I risultati ottenuti mostrano anzitutto che i pareri sono piuttosto discordi. Tuttavia, la maggior parte dei rispondenti (68,9%) ha approvato la capacità degli scienziati di combattere il virus e la sua messa in pratica e ha avvertito un grande supporto dai familiari (55,7%), dai negozi di vicinato (42,6%) e dai medici di base (40,5%).
I livelli di gradimento più bassi sono stati per le Tv (13,6% di giudizi positivi), i social media (19,8%), l’Unione Europea (21,3%), le istituzioni locali, ossia i comuni e le aziende sanitarie locali (21,8%) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità-OMS (25%). È probabile che il basso voto ottenuto dalla UE dipenda dalla gestione pasticciata della fase di preparazione dei vaccini, quello ottenuto dall’OMS dalla lentezza e dal modo incomprensibile ai profani delle comunicazioni sull’infezione, e quello di comuni e ASL per la latitanza durante l’epidemia. È comunque un fatto che le istituzioni sanitarie nazionali ed internazionali escono dall’indagine con le ossa rotte, avendo avuto almeno tre voti non favorevoli ogni quattro espressi da parte della popolazione italiana.
Esaminiamo ora il gradimento del tutto insufficiente ottenuto dai canali di comunicazione di massa, ossia dalle Tv e dai cosiddetti “social”. Si noti che le prime erano il canale esclusivo del sistema sanitario per la diffusione di informazioni sul virus, sui rischi connessi al contagio e sulle terapie suggerite per prevenire o per curare in casa l’infezione. Ciò nonostante, il livello di gradimento ottenuto dalle Tv è risultato infimo e persino inferiore a quello dei deprecati social media.
Abbiamo fatto una ricerca sulla letteratura internazionale per capire se lo strano risultato sia una peculiarità italiana o un fattore comune a vari Paesi. Abbiamo potuto constatare che la stessa cosa (social media valutati meglio delle Tv) risulta in ogni Paese che abbia fatto una ricerca a tal proposito. L’ipotesi prevalente è che ciò sia dovuto alla simpatia di cui godono alcuni blogger noti per la loro serietà nel proporre informazioni e dati. Si può anche avanzare l’ipotesi che la gente abbia attribuito alle Tv il disagio per la confusione con cui il sistema sanitario ha diffuso le notizie inerenti all’epidemia, ragion per cui hanno percepito i social come il canale della contro-informazione rispetto alle Tv, concepite, al contrario, come il megafono acritico dell’autorità. A questo proposito, sarà sempre benedetto dal popolo il giorno in cui i giornalisti (senza distinzione di sesso, età e colore politico) saranno mandati a corsi di aggiornamento scientifico e impareranno a “filtrare criticamente” le informazioni che vengono loro passate.
L’insieme che ha ottenuto il gradimento più elevato è quello degli scienziati, ai quali la gente attribuisce il merito di avere combattuto e sconfitto il virus. Non è una cosa da poco, perché in tutto il mondo si è constatato che le istituzioni scientifiche, e quelle sanitarie in particolare, hanno mostrato pecche. La gente distingue nettamente l’insieme dei princìpi e dei mezzi di scienza della salute rispetto a chi li ha messi in opera per combattere il virus. Questa distinzione si è constatata per la pandemia così come per altri disastri naturali, a cui la pandemia è assimilabile: la gente ha fiducia nella conoscenza scientifica messa in atto, ma sfiducia nelle istituzioni preposte ad informare ed intervenire. Quanto ciò dipenda da una specie di divinazione della componente arcana della scienza e quanto dalla usuale lamentela dopo un intervento pubblico che “le cose si potevano fare meglio” è materia di un possibile dibattito che qui non affrontiamo.
La gente, infine, ha riportato nell’indagine di aver avuto il massimo aiuto dai famigliari e persino dagli amici. Un tipo di aiuto dato dalla famiglia e dal gruppo ristretto dei pari è stato certamente quello di dipanare le informazioni essenziali per sopravvivere all’epidemia. Un altro è stato quello di gestire le attività quotidiane durante i cosiddetti lockdown, cioè le chiusure in casa.
Durante l’intera pandemia, le famiglie sono state i micro-cosmi sociali entro i quali si è organizzata la vita dei singoli, creando una nuova normalità, fatta di pranzi e passatempi assieme, di nuova pianificazione degli orari della giornata, di redistribuzione dei carichi di lavoro domestico, di competizione per gli spazi e i computer di casa tra chi doveva fare didattica o lavoro a distanza. Inoltre, pur avendo tempi più lunghi del solito, si è consumato meno alcool e droga di prima.
Ci sono stati, è vero, alcuni casi di violenza domestica quando la convivenza forzata riguardava famiglie in dissoluzione, ma questi fenomeni negativi, in Italia specificamente (ma questo fenomeno è documentato anche per il resto del mondo), sono limitati ad una men che esigua minoranza di famiglie.
La scoperta forse più interessante dal punto di vista sociologico è il ruolo che la gente ha attribuito ai negozi di quartiere, i quali sono diventati, durante i lockdown ma anche durante l’intera pandemia, il punto d’incontro della comunità locale, una sorta di moderna agorà. Nei negozi la gente si è scambiata informazioni sui cibi e sul modo di conservarli in casa per più tempo del solito, ipotesi sulle conseguenze del contagio basate su esperienze dirette e considerazioni sul modo di organizzare la vita in famiglia, e ha socializzato le proprie riflessioni sul futuro.
Partendo dalla centralità assunta dai negozi, in modo particolare di alimentari, alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che – qualora la pandemia abbia cambiato in modo duraturo la natura dei negozi di quartiere da luoghi di esposizione di prodotti a luogo di scambio di informazioni, riflessioni e suggerimenti con vicini ed esperti – chi pianifica il territorio dovrebbe tenerne conto nel favorire il posizionamento dei negozi nei centri cittadini e nelle comunità locali.
I ragionamenti sopra esposti ci portano ad affermare che, nonostante il grave impatto sanitario (che però ora sappiamo essere stato meno grave di quanto inizialmente presentato), la pandemia ha introdotto anche positività nel modo di ragionare ed agire della gente. Nel parlare comune, c’è un prima e un dopo l’epidemia, come se fosse uno scalino della storia. Di sicuro, rimane un crocevia nella storia sociale di interi Paesi e dell’Italia in particolare.
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