Anche la Santa Sede fatica a mediare un accordo per il ritorno alle loro case di bambini ucraini “rapiti” dai russi e per lo scambio dei prigionieri di guerra. Lo ha reso noto in Canada l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni Internazionali, durante uno degli incontri di pace proposti dal presidente ucraino Zelensky. A molti dei piccoli è stata data la nazionalità russa e ora è più difficile individuarli, mentre, per quanto riguarda i soldati catturati, non c’è corrispondenza fra le liste compilate dagli ucraini e quelle invece preparate dai russi.
È comunque un canale aperto, osserva Stefano Caprio, sacerdote cattolico di rito bizantino in Russia dal 1989 al 2002, teologo ed esperto del mondo russo, in vista di vere trattative di pace nelle quali Turchia e India sembrano accreditate come possibili mediatrici e che potrebbero veder coinvolto anche il Vaticano. Intanto, la gente, da una parte e dall’altra, è sempre più stanca della guerra. In Russia, nelle province, comincia anche a mancare qualche prodotto alimentare, mentre aumenta il consumo degli alcolici.
Il Vaticano incontra degli ostacoli nelle trattative per il rientro in Patria dei bambini ucraini finiti oltre confine. A che punto siamo? Perché è tutto bloccato?
Mosca sta russificando i bambini ucraini: viene concessa la nazionalità russa, non risultano più profughi e diventa difficile identificarli. Un fenomeno che va avanti dall’inizio e che ora è particolarmente grave. Quando gli ucraini fanno i loro calcoli, per capire quanti sono, scoprono che i numeri non corrispondono a quelli russi. Per questo, la mediazione della Santa Sede è sempre più complicata.
Ma non è questo l’unico problema: anche lo scambio dei prigionieri non si concretizza. Perché?
Sono stati liberati dei sacerdoti, anche cattolici, ora però si discute sulla liberazione dei prigionieri ucraini di Kursk, anche questi difficili da identificare. La gestione della regione è molto confusa: da parte russa l’hanno in mano i ceceni, il battaglione Akhmat di Apti Alaudinov, un po’ il nuovo Prigozhin, che litiga con l’esercito russo perché non riconoscerebbe i meriti ceceni nel controllo del territorio. Non si capisce chi comanda, né quanti siano i soldati ucraini prigionieri. Il nunzio apostolico in Ucraina, Visvaldas Kulbokas, sta cercando di mettere insieme i nomi forniti dal ministero della Difesa ucraino, che però, appunto, non corrispondono con quelli dei russi.
A chi gioverebbe di più lo scambio dei prigionieri di guerra, ai russi o agli ucraini?
Dovrebbe giovare di più agli ucraini, perché hanno meno personale a livello militare. Dietro, comunque, c’è anche la questione dei prigionieri politici in Russia, una carta che Mosca, come è successo questa estate con la liberazione di alcuni personaggi conosciuti, tenta di giocare per avere vantaggi sul piano delle relazioni internazionali. Quando si scambiano i militari, però, lo si fa alla pari; se si tratta di un dissidente, la richiesta della contropartita viene alzata. Una situazione usata dalla Russia per allentare la pressione internazionale su di sé.
Quella per far tornare in Ucraina bambini e prigionieri è una trattativa soltanto umanitaria?
Si entra in un gioco più grande rispetto a quello umanitario, per cercare di allacciare un livello di trattative più ampio, che possa portare alla fine degli scontri armati.
Per vedere delle vere trattative, tuttavia, bisognerà aspettare ancora?
Sì. Ci sono di mezzo i tempi militari, con gli ultimi assalti prima dell’inverno. La primavera sarà il momento decisivo: se in quel momento ricominceranno attacchi e contrattacchi, finiremo alla fine dell’anno prossimo. Adesso, comunque, si va verso il gelo, che blocca molte cose, anche il movimento delle truppe. Ai russi, per ora, non conviene un trattato di pace e anche il nuovo presidente USA entrerà in carica da gennaio; potrà cominciare a trattare anche prima, ma non ufficialmente.
Si è parlato questa settimana, come ipotizzato dal Financial Times, di una possibile ripresa delle trattative per evitare gli attacchi alle infrastrutture energetiche. Anche questo è uno spiraglio che fa pensare ai negoziati?
Lo ha detto anche Zelensky. Si buttano degli ami per vedere se qualcuno abbocca, come quello di Erdogan, che ha ipotizzato di riprendere il dialogo per il rinnovo dell’accordo per la commercializzazione del grano. Lo ha fatto ai margini dell’assemblea dei BRICS. Il presidente turco si ripropone come mediatore.
Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, però, stavolta ha frenato un po’ le intenzioni di Ankara: ci sono anche altri interlocutori che possono giocare un ruolo?
In Ucraina si è detto che l’India potrebbe fare molto se smettesse di fare affari con la Russia, cercando di portare Modi dalla parte di Kiev. Turchia e India sono tra i più accreditati mediatori e anche la Santa Sede può svolgere un ruolo non da poco. Sono tutti segnali che si cercherà di fare qualcosa; vedremo se aumenteranno nei prossimi mesi.
In Russia e Ucraina, tra la gente comune, che percezione si ha della guerra adesso?
C’è molta stanchezza. In Russia si sta manifestando qualche criticità dal punto di vista economico: cominciano a mancare alcuni prodotti alimentari. Il burro sta diventando una rarità. In provincia (non a Mosca), nei supermercati capita che i clienti aprano le confezioni per versare i prodotti nei loro sacchetti: fanno così con il riso, lo zucchero, il sale.
Anche in Russia, insomma, cominciano a sentire il peso della guerra?
Tra chi vive a Mosca e San Pietroburgo c’è anche chi cerca di dimenticarla mettendo la testa sotto la sabbia. Il patriarca Kirill ha stigmatizzato il loro comportamento, dichiarando che è immorale divertirsi, vivere nel lusso mentre è in corso l’operazione militare speciale, e invitando a vivere in modo più sobrio. Si tratta di una fascia della popolazione che sta ancora bene, mentre c’è una parte consistente che fa fatica. Non è un caso che sia aumentato l’uso di alcolici e il ricorso agli psicologi.
Putin dovrà tenere conto di tutto questo?
Putin sembra che stia andando avanti senza pensare neanche a quello che succederà. L’impressione è che la dirigenza putiniana cerchi solo di riproporre uno stile di vita sovietico, con una società totalmente votata alla guerra. L’invito di Kirill potrebbe essere un’interpretazione del pensiero di Putin: bisogna imparare a vivere così, come si viveva nell’URSS. Un ritorno al passato, al periodo staliniano.
(Paolo Rossetti)
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