La flessione del numero degli occupati nel mese di settembre 2024 (-63 mila) rappresenta una pausa della crescita imponente dei posti di lavoro negli ultimi tre anni – oltre un milione in più rispetto ai numeri registrati nel gennaio 2020 e il superamento della soglia dei 24 milioni di occupati nel secondo semestre di quest’anno. Questo risultato è il frutto della crescita dirompente della quota dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato (+1,267milioni) e di una parziale riduzione di quelli a termine (-201 mila) e dei lavoratori autonomi (-40 mila). In percentuale l’aumento del tasso di occupazione è risultato superiore a quello della crescita dell’economia anche per la concomitante riduzione (-445 mila) delle persone in età di lavoro.
La crescita del numero degli occupati superiore a quella del Pil può essere letta in chiaroscuro perché segnala una contemporanea riduzione della produttività del lavoro e la stagnazione delle ore medie pro capite lavorate che riflette la rilevante componente, poco meno di 4 milioni, di rapporti part-time.
L’aumento dei rapporti a tempo indeterminato viene correttamente interpretato come una risposta del sistema delle imprese alla difficoltà di trovare personale con competenze coerenti con i fabbisogni della produzione. Un problema che risulta aggravato dalla riduzione della costante popolazione in età di lavoro. L’esigenza di compensare un esodo verso la pensione dei lavoratori di gran lunga superiore al numero dei giovani in uscita dai percorsi scolastici rimarrà costante nei prossimi anni. Il mismatch tra la domanda e l’offerta di lavoro (la quota dei fabbisogni professionali che non trova lavoratori disponibili) è aumentato di 16 punti nel corso dei tre anni citati avvicinando la soglia del 50% delle potenziali assunzioni. Questa criticità può comportare, per una parte rilevante delle imprese, la rinuncia a espandere le attività produttive per carenza di personale.
Il mismatch è un fenomeno complesso, generato: dall’incapacità di formare in modo adeguato le risorse umane; dal mutamento dei valori e delle aspettative delle giovani generazioni verso il lavoro manuale; dalle difficoltà di conciliare i carichi familiari con il lavoro; dagli squilibri economici territoriali; dalla carenza di politiche in grado di ridurre in modo lungimirante queste asimmetrie.
Questi fenomeni sono presenti in tutti i mercati del lavoro dei Paesi e si manifestano in particolare quando il tasso di occupazione delle persone in età di lavoro occupate risulta molto elevato (oltre il 70%). Nel caso italiano queste criticità si sono manifestate, con un’intensità maggiore, sulla soglia del 60%. Inferiore di 10 punti rispetto alla media dei Paesi Ue ed equivalente a un sottoutilizzo delle persone in età di lavoro superiore ai 3 milioni.
Cerchiamo di comprendere le motivazioni dell’anomalia italiana. La crescita del numero degli occupati ha consentito di ridurre in modo cospicuo il numero delle persone in cerca di lavoro (-861 mila) per la gran parte donne disoccupate (-428 mila) e giovani under 35 anni (-358 mil), ma è rimasta sostanzialmente inalterata la percentuale delle persone in età di lavoro inattive, equivalente a un terzo di quelle in età di lavoro. In particolare, risulta preoccupante che, di fronte a una domanda delle imprese superiore ai lavoratori disponibili, sia rimasto sostanzialmente invariato il numero assoluto dei giovani inattivi.
Un altro dato significativo è la forte crescita dei lavoratori over 50 (+1,073 milioni) per la gran parte motivato dall’invecchiamento della popolazione attiva. Rappresenta attualmente il 38% degli occupati superando la quota di quelli con età tra i 35 e i 49 anni che non è stata alimentata da un adeguato ricambio generazionale. La resilienza dei lavoratori anziani è motivata anche dalla bassa intensità delle innovazioni tecnologiche nelle piccole imprese e in molti settori dei servizi e dalla carenza di manodopera disponibile per le mansioni esecutive qualificate.
Il paradosso del nostro mercato del lavoro è rappresentato dall’inadeguata disponibilità di risorse umane per far fronte al fabbisogno di personale qualificato, destinata ad aumentare con l’impiego delle tecnologie digitali, e della scarsa attrattività di una parte rilevante delle imprese che si mantengono redditizie comprimendo i costi del lavoro. Per sostituire i lavoratori anziani che vanno in pensione aumenta la richiesta di nuovi immigrati da parte delle imprese e delle famiglie. Utile, forse, per soddisfare il fabbisogno di mansioni poco qualificate, ma del tutto inadeguata per compensare il fabbisogno di profili che richiedono percorsi formativi o esperienze adeguate.
L’esercito di riserva per la nuova occupazione è rappresentato per la gran parte dalle donne. Il tasso di occupazione femminile cresce ma rimane distante di quasi 20 punti rispetto a quello dei maschi. Quello delle donne inattive si è ridotto, ma il loro numero è superiore agli 8 milioni. Il dato risulta penalizzato dalla concentrazione delle donne inattive nel Mezzogiorno e dalla crescita dei fabbisogni di servizi familiari che impediscono l’accesso al lavoro. Indagini recenti confermano l’abbandono del lavoro da parte di un quinto delle giovani madri dopo il parto, ma segnalano una crescita dell’abbandono anche per le donne adulte che si devono far carico della cura di familiari e anziani non autosufficienti.
Sintesi finale: la crescita del mismatch mette in evidenza una potenzialità di crescita dell’occupazione superiore a quella realizzata; la riduzione delle persone in età di lavoro deve necessariamente essere compensata da un maggior utilizzo delle persone disoccupate o inattive che sono prevalentemente giovani e donne; queste opportunità hanno consentito di migliorare la crescita del tasso di occupazione riducendo la quota delle persone che cercano attivamente il lavoro, ma non riescono a scalfire quella delle persone inattive per una serie di nodi irrisolti (formazione non adeguata, squilibri territoriali, bassa produttività e bassi salari, supporti inadeguati per conciliare i carichi familiari con quelli lavorativi, immigrazione poco qualificata).
I ritardi storici delle nostre politiche per il lavoro non consentono di avere un’adeguata generazione di risorse umane qualificate per trasferire e utilizzare le nuove tecnologie digitali nelle organizzazioni del lavoro, ma non riescono nemmeno a garantire una manodopera disponibile per i settori e le imprese ad alta intensità di lavoro. Sono criticità destinate ad aumentare spontaneamente per l’invecchiamento della popolazione e per l’impatto delle innovazioni tecnologiche.
Una serie di mine vaganti rischia seriamente di compromettere la crescita del tasso di occupazione, cioè del carburante che risulta indispensabile per la crescita dell’economia e per la sostenibilità delle prestazioni sociali. Dalla rigenerazione della nostra popolazione attiva dipende il destino della nostra comunità, ma il tema fatica a essere compreso da una larga parte della nostra classe dirigente.
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