Sydney Sibilia si era già sbilanciato e c’è da credere che Hanno ucciso l’uomo ragno – La leggendaria storia degli 883 avrà effettivamente un sequel (ancorché con un titolo diverso). Di quanto la “nostalgia” abbia contribuito al successo della serie tv trasmessa da Sky si è già scritto su queste pagine e basta vedere le interviste e le dichiarazioni dei veri protagonisti di quella storia di queste settimane, insieme alle ricerche sul web di materiale di quell’epoca, “suggerita” proprio dall’uso astuto fattone nei titoli di coda di alcune puntate, per averne una conferma. Tuttavia, a dispetto del successo avuto, si può dire che si sia di fronte a un’occasione persa.
Mai sottotitolo fu più azzeccato per specificare che la serie non ha alcun intento di essere un biopic su Max Pezzali e Mauro Repetto ai loro esordi. Tolta quindi la ricostruzione dei fatti realmente accaduti, simile più, appunto, a una leggenda, cosa resta? Buone idee, buoni spunti, come un successo che non nasce da un singolo, ma dalla coesione di più idee e più fatti, dal contributo anche di personaggi secondari, apparentemente insignificanti rispetto alle vicende dei due protagonisti. Una serie che lascia da parte futuri distopici, fantascienza, intrighi, crimini, indagini, seconde vite nascoste, inclusività a tutti i costi, ma vuol parlare delle persone, dei giovani in particolare e della ricerca del loro posto nel mondo diverso da quello che appare un futuro già scritto e pre-confezionato. Una serie che (possiamo dirlo?) fino a qualche decennio fa sarebbe stata tranquillamente appannaggio delle reti Mediaset.
Ma allora cosa c’è che non va in Hanno ucciso l’uomo ragno – La leggendaria storia degli 883? È che a guardare questa serie resta sempre un po’ di inquietudine, la stessa che provano i suoi protagonisti. Un’inquietudine non buona, quella per cui ogni fatto positivo sembra non compiersi pienamente, quella per cui anche la realizzazione del proprio sogno diventa origine di un nuovo problema da affrontare, quasi come trovarsi in un labirinto da cui non si esce mai.
Ed è così che una serie con un cast con bravi giovani attori (e un Edoardo Ferrario che finalmente esce da programmi puramente comici) finisce per lasciare il segno più per aver provato a raccontare (senza riuscire ad attenersi realmente ai fatti) come due ragazzi di Pavia siano riusciti a conquistare le vette discografiche “dal nulla” senza nemmeno social o Youtube per farsi conoscere che non per aver cercato di dire qualcosa di nuovo.
Chissà che le parole fatte pronunciate da Claudio Cecchetto (ingenerosamente dipinto come un semi-svampito simile a un anziano “bauscia” un po’ rinco) “Col primo album abbiamo fatto il botto, con il secondo dobbiamo fare la storia” non fossero in realtà un implicito riferimento al lavoro che avrà da fare Sibilia con la seconda stagione della serie, dove ci sarà forse una sfida notevole da affrontare: mostrare l’addio di Repetto agli 883, già oggetto di diverse versioni da ormai trent’anni.
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