Re Felipe fischiato e l’auto del premier Sánchez presa a bastonate durante la visita alle zone disastrate di Valencia sono immagini che hanno fatto il giro del mondo. Il bilancio delle vittime è ancora provvisorio e nel cratere si lavora senza sosta, ma le contestazioni di domenica hanno svelato una ferita che non sarà facile rimarginare. Agustín Menendez, docente di diritto pubblico comparato e filosofia politica nell’Università Complutense di Madrid, spiega al Sussidiario i principali errori commessi. Serpeggiano due tentazioni, la prima – dice – è che “il popolo salva il popolo”, la seconda è che “lo Stato non funziona”. Discorsi “molto pericolosi” che vanno respinti.
Partiamo dalle contestazioni. Sono state così violente che hanno sorpreso tutti. Si possono capire quelle contro la Generalitat guidata da Carlos Mazón; ma il re Felipe?
La Costituzione spagnola del 1978, all’articolo 62, assegna poteri rilevanti al re, anche quello di “comandate in capo” dell’esercito. Questo implica che il re è un attore politico, e come tale, prima o poi, sarà criticato e contestato.
Non è una figura apolitica, super partes?
È stato visto così per decenni grazie a una lettura della storia recente spagnola che lo presentava come “padre fondatore” della democrazia. Nominato erede dal dittatore Franco, Juan Carlos avrebbe usato il suo potere per iniziare la transizione democratica, per di più pilotandola verso un porto sicuro.
E dove sta l’obiezione?
Questa lettura è troppo semplicistica e non ha mai funzionato bene del tutto. Negli ultimi anni, e anche mesi, si è rivelata un mito.
Cosa sarebbe successo in realtà?
La “abdicazione” di Juan Carlos nel 2014 è stata un’operazione fallita, se si voleva evitare che gli scandali che avevano travolto la figura del re emerito mettessero in discussione l’istituzione. Questo è diventato evidente nel 2020, quando i monarchici, per salvare la monarchia, hanno dovuto sacrificare il re emerito, forzandolo all’esilio. Il metodo Edipo ha sempre le sue complicazioni, ma queste risultano ancor più acute nel momento in cui la legittimità dell’istituzione pretendeva di nutrirsi delle presunte virtù di Juan Carlos. Infine, nelle ultime settimane, diverse registrazioni degli anni 90 sembrano condurre a un’interpretazione del ruolo del re emerito nel colpo di Stato del 23 febbraio 1981 ben diversa da quella accettata finora nel discorso ufficiale. Ovviamente la storia non si fa con i pettegolezzi, ma è chiaro che gli storici, già da tempo, puntavano a una ricostruzione molto più complessa dei fatti.
Ma perché re Felipe si è fatto vedere con Sánchez e Mazón? In questo modo, implicitamente, si è messo dalla loro parte.
Da quanto risulta, l’iniziativa della visita è partita dalla Casa reale. Non conosciamo le ragioni della decisione, ma non sembra totalmente azzardato pensare che possa aver pesato la perdita di legittimità appena descritta. In più, la fretta di presentarsi come una figura di consenso forse spiega la tempistica, più che discutibile. Chi gioca con il fuoco, generalmente finisce per bruciarsi.
Anche Sánchez ha responsabilità, oltre al governatore Mazón?
La Spagna è uno Stato federale in tutto tranne che nel nome. Quindi, è fondamentale determinare quale livello di governo sia competente in casi come questo.
Ci spieghi.
La regione di Valencia ha la competenza esclusiva in materia di protezione civile e sicurezza (ex articolo 49.3.14ª del suo “Estatut” di Autonomía). Spettava alla regione lanciare tempestivamente gli allarmi, cosa che non si è verificata, e anche gestire i soccorsi, cosa che non sono riusciti a fare in maniera veloce e adeguata alla dimensione della catastrofe.
Sappiamo che l’Unità valenciana di emergenza è stata soppressa.
Il decreto 20/2024 della Regione l’ha eliminata in nome del buon uso dei soldi pubblici. Una decisione che si è rilevata fatale, aggravata da una gestione dilettantistica della crisi da parte del presidente regionale, venuta in evidenza sabato scorso. Se aggiungiamo una comunicazione scadente, risulta facile capire perché Mazón esca con le ossa rotte da questa vicenda.
Torniamo alle competenze.
La competenza non è del governo centrale. In più, è difficile negare che si è messo a disposizione della regione, offrendo i mezzi necessari. Detto questo, il governo potrebbe diventare competente se la catastrofe fosse dichiarata un’emergenza “di interesse nazionale” o di livello 3. Però basta leggere l’articolo 29 della legge spagnola del Sistema nazionale di Protezione civile per rendersi conto che quella decisione non deve essere pressa unilateralmente dal governo centrale, specialmente se il governo regionale insiste nella sua capacità di gestire la situazione. Il federalismo alla spagnola è un federalismo cooperativo, nel bene e nel male.
Dunque il governo centrale non ha sbagliato nulla?
In una crisi come questa è difficile che qualcuno non faccia errori. Sánchez ha sbagliato il giudizio di opportunità sulla conferenza stampa di sabato. È stato un errore strategico madornale. Soprattutto se pensiamo a quanto la sua figura risulta divisiva oggi nella scena politica spagnola.
È vero che Mazón aveva dato a Vox la delega sull’Unità di emergenza?
Sì. Ed è stata Vox a propugnarne la soppressione. Adesso risulta evidente che non era un carrozzone inutile, ma un’istituzione fondamentale in situazioni come questa. Da anni Vox ha sviluppato un discorso che si pretende “patriottico”, ma che in sostanza è profondamente neoliberale, quando non anarchico-capitalista.
Ma Vox vuole più o meno Stato?
Vox vuole meno Stato – associato sempre, nel suo discorso, allo sperpero di risorse –, ma poi denuncia l’assenza dello Stato quando arrivano le difficoltà. È una prova delle contraddizioni del suo discorso e spiega la fluidità di quello spazio politico, ma anche l’emergenza di “nuove” forze che fanno la concorrenza a Vox.
Ad esempio?
Non ci sarebbe da stupirsi se spuntasse nei prossimi mesi una forza politica alla Sahra Wagenknecht, combinando un discorso nazionalista con elementi di critica al neoliberalismo. Un partito “rossobruno” esiste già in Catalogna. E la crisi parallela dello spazio alla sinistra del Partito Socialista crea le condizioni per queste trasformazioni.
Perché Mazón non ha dichiarato lo stato di emergenza?
Ha dichiarato un’emergenza di “livello 2”, nella quale il controllo operativo spetta al governo regionale. Non ha mostrato alcuna disponibilità e volontà di chiedere al governo centrale l’innalzamento del livello di emergenza, malgrado i richiami del capo nominale del Partito Popolare, Feijóo.
Gli interventi sul fiume Turia attuati sulla base della direttiva europea quadro sulle acque 2000/60/CE (Eu Water Framework Directive) hanno avuto un ruolo nel disastro?
C’è un chiaro rapporto di causalità fra la cementificazione scellerata di zone chiaramente inondabili e il disastro. È un problema storico, aggravato dalla decisione presa nel 2016 dal governo Rajoy che ha dato una spinta in più a edificazioni ad alto rischio.
Non è stata aumentata la portata d’acqua del Turia per ragioni ecologiche, alterando il suo corso?
Il corso del Turia è stato modificato sostanzialmente negli anni 60, dopo l’alluvione del 1957. Grazie a quelle opere, una parte molto estesa della città di Valencia questa volta è stata protetta del peggio. Allo stesso tempo, il re-indirizzamento del fiume ha lasciato il vecchio canale a secco, con danni ambientali forse secondari ma consistenti. Alla fine del 2023 si sono approvati i piani per riportare una parte dell’acqua nel vecchio canale, senza, mi sembra, interferire con la sua funzione di “uscita di emergenza” dell’acqua in caso di alluvione. Questo spiega perché i volontari arrivano a piedi da Valencia.
Intanto, Barcellona è stata colpita ma senza gravi conseguenze.
Questo disastro non sarà l’ultimo, a meno che non si faccia una politica territoriale ben diversa. L’innalzamento della temperatura media dell’acqua del Mediterraneo, 2°C in più rispetto agli anni 80, renderà più frequenti questi fenomeni.
Qual è la lezione politica che si può cominciare a trarre da questa tragedia?
Il disastro sta alimentando due miti pericolosi. Il primo è l’idea che “il popolo salva il popolo”, mentre le istituzioni non fanno niente. È vero che la gestione della regione è stata inadeguata, ed è anche vero che i cittadini si sono mobilitati dal basso, come si fa da secoli. Ma le istituzioni democratiche sono, quando funzionano e lo fanno per il bene pubblico, la versione migliore del popolo. Sono l’esercito e i poliziotti a togliere le machine delle strade, recuperando i cadaveri, distribuendo i viveri e l’acqua.
E il secondo mito pericoloso?
Il secondo è che “lo Stato non funziona”. Non è vero. Non confondiamo le responsabilità politiche personali con l’inadeguatezza della risposata istituzionale.
Dunque la mobilitazione e la solidarietà sono importanti ma non bastano?
Esatto. Non bastano perché la “società civile” ha il suo ruolo, ma le istituzioni, che in una democrazia devono essere un’espressione della società civile, hanno il loro. In queste ore sento fare troppi discorsi faciloni di chi vorrebbe fare a meno delle istituzioni o banalizza la loro utilità. Sono discorsi pericolosi.
(Federico Ferraù)
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