È domenica mattina. Vincenzo Pennacchi, pittore e scultore classe 1955, accoglie i visitatori dentro la sua mostra personale, tenutasi dal 27 settembre sino al 3 novembre presso il Museo delle Santissime Stimmate di Velletri, che è stata parte del più ampio progetto di arte contemporanea diffusa Planiverso. Se il nostro spazio fosse l’ombra di un altro? a cura di Gabriele Perretta. L’esposizione, mentre si scrivono queste righe, è finita, e questo consente di riferire con più lucidità e forza delle impressioni ed emozioni che l’ammirazione delle opere di questo artista regala.
Pennacchi accoglie con gesto silenzioso e gentile. Invita tutti a fare un primo giro del museo, per guardare e farsi prima una idea generale del dialogo che ha elegantemente intrapreso con lo spazio entro cui prende vita la ricerca che ha svolto. Ci tiene a precisare che tutto quel che si ha modo di osservare, per qualche strana coincidenza o trama del destino, è nato molto prima dell’idea del progetto espositivo. Poi, inevitabilmente, entrando a contatto con una dimensione tanto densa e suggestiva, altre visioni sono sorte insieme a quelle che già erano arrivate da altri mondi. Da subito ci si scontra con un gesto drammatico e feroce, da un lato, e volontariamente beffardo, quasi ironico, dall’altro.
È un’artista di lungo corso, Pennacchi, ma conserva teneramente, per chiunque si accosti alle sue creazioni, la premura di trovare parole che aiutino ad entrare nei suoi colori e nelle sue forme, nel suo immaginario vastissimo. Le sue parole, però (fortunatamente per lui, viene da dire) sono più deboli delle sue creazioni. L’antico tempio etrusco che venne scoperto nel corso di alcuni lavori commissionati dalla Curia è un sipario perfetto per la materia che Pennacchi indaga e per il modo e le tecniche che adopera.
Il grande cannocchiale puntato verso il finestrone di fronte, opera site-specific come molte di quelle che si incontrano lungo il percorso di mostra, è un invito all’osservatore che si trova a frugare con lo sguardo dentro al lungo tubo ideato dall’artista e che inquadra, abbracciandole tutte insieme, parte di un quadro in mostra, una colonna di quelle costruite per sostenere la teca che abbraccia i ruderi ed un lungo lenzuolo che assomiglia, sulle prime, ad un antichissimo sudario, ad una sindone. I lunghi lenzuoli che scendono adagiati alle mura del tempio assomigliano ai paramenti antichi della Chiesa. Ma, nel caso di Pennacchi, la regalità sontuosa cede il posto ad esplosioni di colore impazzito (di furore o gioia, questo non si sa mai fino in fondo) che coprono tutta la lunghezza dei materiali. Nel punto più a nord del percorso, in un ossimoro che risulta sulle prime di impossibile comprensione, una capanna fatta di canne di bambù rivestita di un lungo telo dipinto da tanti colori troneggia, sovrastando la sbalorditiva scultura di un toro che viene sacrificato. Anticamente, si pensa, il tempio deve esser stato luogo di immolazione e sacrifici agli dei, e il toro, rappresentazione emblematica della forza, era una delle vittime sacrificali che più erano agli dei gradite.
Il toro di Pennacchi prende vita grazie a materiali di risulta, una vecchia moto di cui resta solo il telaio su cui poggia un lenzuolo rosso a suggerire il sangue della bestia uccisa, e una testa curva che nient’altro è che il vecchio motore della Guzzi, capovolto e posto di fronte ad uno specchio. Lo specchio, suggerisce l’artista, spoglia le creazioni della loro violenza, le trasferisce in un’altra dimensione. Pare, in effetti, che la superficie specchiante consenta a chi osserva di immergersi, varcando una soglia, dentro uno spazio in cui le immagini scivolano lentamente entro pareti di ovatta, e si deformano, con strana levità.
L’artista abita lo spazio con grande possenza e lo fa abitare a chi entra: i suoi sudari, i suoi ex voto, il suo toro sacrificato e i suoi lunghi paramenti che assomigliano ai lenzuoli dei martiri deposti dalle croci, si installano solennemente sulle vecchie fondamenta del tempio pagano, tempo in cui il sacro erano gli dei, “lunga scala per arrivare a Dio”, avrebbe detto un giorno George Steiner. E che pure, in qualche zona dell’aldiquà, continuano ad esserci. Tutto ciò che Pennacchi tocca si contorce, trema, si spezza per lasciar emergere qualcosa.
Sembra, talvolta, di stare di fronte all’Essere, al fondo della vita, che stenta a credere a sé stesso, e che si ribella. Il corpo, nelle figure di Pennacchi, quando lo si riesce ad intravedere nel folto dei colori e dei materiali, è sempre un corpo che lotta con sé stesso, che maledice, forse, il suo obbligo di essere. E domanda di sé a chi guarda. Lo sfida, in un turbinio di strappi, contorsioni e colori urlati. I colori in mostra in questa ultima personale dell’artista, le forme e le immagini, così come le sculture, qualunque sia la loro fisionomia, sono entità inquiete che tentano di innalzarsi oltre la propria fatica.
A ben vedere, tutto il tempio, le rovine, le colonne, le opere dell’artista italiano erede di Rauschenberg, formano insieme un grido verticale, un geyser di dolore e allegria che chiama le profondità di un più vasto cielo. ”Qualunque cosa tu dica o faccia/ c’è un grido dentro: non è per questo, non è per questo, (…) e così tutto rimanda/ a una segreta domanda” scriveva Clemente Rebora, grandioso poeta italiano del novecento. Come a dire, “non è tutto qui quello per cui lotto, non è solo nel visibile il Regno che tento di raggiungere”. Il lavoro di Pennacchi passa attraverso i supporti e i materiali più insoliti, dalla tela alla carta al ferro alla resina; in ognuno emerge, però, delicatamente, il tocco inconfondibile di una mano che sa distanziarsi da sé stessa e dalla sua propria creazione, evitando il rischio del patetismo confessionale, per rimanere fedele alla prima immagine e alla prima ispirazione che sorregge il gesto artistico.
“L’ironia” diceva Goethe “non è che la passione che si libera nel distacco”. Vincenzo Pennacchi è capace di distruggere le forme e lasciare che l’Essere ospitato nei suoi lavori tradisca tutta la sua caducità, mostri tutta la sua corruzione. E certo, questo è tragico. La vita è spesso una tragedia. Ma anche una danza, un “equilibrio sopra la follia” dice un grande della canzone del nostro tempo. Una fontana segreta da cui, al fondo, sprizza il ricordo della gioia. Che, a volte, sorprendentemente, è anche gioia vera.
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