Potrebbe sembrare fuori luogo una enciclica del Papa “sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù Cristo” (così recita il sottotitolo), che dedichi un capitolo, il primo, all’importanza del cuore. Di fronte alle guerre che colpiscono la terra, di fronte alla crescente violenza nei rapporti umani e ai segni di un diffuso disagio nelle giovani generazioni, che senso ha “ritornare al cuore”? Francesco non è un ingenuo, né un sentimentale: fa appello al cuore dell’uomo perché è nel cuore che si gioca la grandezza o la miseria della vita, e come affermava don Luigi Giussani, grande educatore, “le forze che muovono la storia sono le stesse che muovono il cuore dell’uomo”.
In realtà riscoprire la verità del cuore umano, la sua sete di bellezza e di vita è la strada per vincere la noia e il vuoto che abitano adolescenti e giovani, per non cedere alla tentazione di una violenza istintiva e possessiva nelle relazioni, per contrastare la logica disumana della guerra e dello scontro, che mette a rischio il futuro del mondo.
Così, leggere il primo capitolo dell’enciclica Dilexit nos è compiere un percorso affascinante alla scoperta del cuore, superando ogni riduzione sentimentalistica e irrazionale di questa dimensione così profondamente umana dell’io. Già nel mondo greco classico, il cuore indica molto più di un organo del corpo: indica “l’anima e il nucleo spirituale dell’essere umano” (n. 3). Soprattutto è “centro del desiderio e luogo in cui prendono forma le decisioni importanti della persona” (n. 3). C’è l’intuizione che non siamo solo un fascio di reazioni e pensieri, “una somma di capacità diverse”, ma c’è in noi “un centro unificatore” (n. 3), che sta alla radice di ciò che siamo, di ciò che desideriamo, di ciò che pensiamo e operiamo.
Anche nella Bibbia il cuore appare come nucleo dell’uomo, luogo della sincerità dove non possiamo mentire a noi stessi e della nuda verità. È il mistero profondo che ci costituisce, che ci affascina e ci inquieta: “Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere?” (Ger 17,9). “Eppure tutto si gioca nel cuore, lì siamo noi stessi” (n. 6). Il Papa cita un passaggio del libro dei Proverbi che afferma: “Più di ogni cosa degna di cura custodisci il tuo cuore, perché da esso sgorga la vita” (4,23). Davvero se il cuore è vivo, se non soffochiamo le esigenze che sono il volto interiore del nostro io, se non riduciamo l’ampiezza dei desideri che formano il tessuto della nostra umanità – desideri di felicità, di bene, di verità, di bellezza e di amore – allora la vita fluisce e siamo come lanciati nell’esistenza, pieni di curiosità, tesi ad affermare la positività di ciò che c’è e allo stesso tempo inquieti, perché mai sazi, mai tranquilli.
Così Francesco descrive il dinamismo del cuore: “La cosa migliore è lasciar emergere domande che contano: chi sono veramente, che cosa cerco, che senso voglio che abbiano la mia vita, le mie scelte o le mie azioni, perché e per quale scopo sono in questo mondo, come valuterò la mia esistenza quando arriverà alla fine, che significato vorrei che avesse tutto ciò che vivo, chi voglio essere davanti agli altri, chi sono davanti a Dio. Queste domande mi portano al mio cuore” (n. 8).
Ecco allora la proposta del Papa: in una società fluida e liquida, dove rischiamo di diventare “consumatori seriali dominati dai ritmi e dai rumori della tecnologia” (n. 9), oscillanti tra la razionalità tecnologica e scientifica e il predominio dell’istinto e della reattività immediata, occorre riscoprire che la vera avventura personale è quella che si vive nel cuore. Esso abbraccia ragione e libertà, volontà e affetti, pensieri ed emozioni, dice e custodisce “il misterio profondo dell’esser nostro” (G. Leopardi).
Al cuore sono associate le esperienze fondamentali dell’umano (i legami, l’amore, la vita sociale, la compassione, la poesia) e alla fine, l’esperienza cristiana è evocata come dialogo e incontro tra il cuore dell’uomo e il cuore di Cristo, vivo e presente: perché il nostro cuore esprime un’umanità in attesa, mendicante di vita, “il nostro cuore non è autosufficiente, è fragile ed è ferito” (n. 30) e ha bisogno d’incontrare una presenza di carne, capace di abbracciare tutto noi stessi.
La grandezza e la miseria, salvata e perdonata, di ciò che siamo vengono pienamente alla luce solo nel momento in cui incontrano il cuore di Cristo, pieno di commossa carità e di tenerezza inesauribile. Così Francesco può concludere questo primo capitolo con un appello rivolto alla libertà di ciascuno: “Andiamo al Cuore di Cristo, il centro del suo essere … la massima pienezza che possa raggiungere l’essere umano. È lì, in quel Cuore, che riconosciamo finalmente noi stessi e impariamo ad amare” (n. 30).
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