Dalle coste orientali degli Stati Uniti un tornado è arrivato fino all’Italia. È il tornado Steve, nel senso di Bannon, e si è abbattuto su Palazzo Chigi. Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato un’intervista all’ex consigliere di Donald Trump, tornato da poco in libertà dopo un periodo di detenzione. Il titolo di prima pagina è tutto dedicato alle politiche europee verso l’Ucraina: “I soldi per Kiev sono finiti, se l’Ue ci tiene li metta lei”, è il diktat dello stratega. Ma le raffiche interne contro Giorgia Meloni sono più devastanti. Alla premier, Bannon invia questa raccomandazione: “Sii ciò che eri quando i Fratelli d’Italia erano al 3%”. Aggiungendo: “Molti, nel movimento Maga (Make America Great Again), pensano che Meloni si è quasi trasformata in una Nikki Haley”. Tradotto: è una voltagabbana. “È stata tra i più grandi sostenitori della continuazione della guerra in Ucraina. Però l’Italia non ha fatto abbastanza per tenere il canale di Suez aperto per il commercio: tra i gruppi tattici di portaerei là, credo che ci sia solo una corvetta italiana. Comunque penso che il suo atteggiamento cambierà con l’arrivo del presidente Trump, che la convincerà”. A confermare la fiducia che i nuovi uomini forti della Casa Bianca nutrono verso l’esecutivo Meloni sono arrivate ieri le parole di Elon Musk contro i magistrati ostili al trasferimento dei migranti in Albania. “I giudici devono andarsene”, ha sentenziato il magnate di Tesla.
Bannon centra un nodo cruciale della nostra presidente del Consiglio: la sua ambivalenza di premier di lotta e di governo. È una posizione ambigua che finora non le è costata perdite di consenso sul fronte interno, ma che da adesso in poi non potrà più essere tenuta sotto il tappeto. Quando aveva il 3%, come dice Bannon, la Meloni era costantemente all’opposizione in nome del conservatorismo e della difesa della nazione, e su questo ha costruito la sua ascesa. Tuttavia, dalla finta opposizione al governo Draghi in poi (funzionale a preparare l’arrivo a Palazzo Chigi), la numero uno di FdI ha lavorato per avere accesso alle stanze che contano. Ha fortemente sostenuto l’appoggio all’Ucraina secondo una linea “più realista del re” (la Nato a guida Pentagono) fatta propria, oltre che da Biden, anche da Bruxelles. Ha tessuto una fitta trama di relazioni con Ursula von der Leyen che non è stata lacerata dal mancato appoggio alla presidente della Commissione Ue. Anzi. Come questo giornale ha scritto a suo tempo, parte dei meloniani, dietro la versione di facciata del “no a Ursula”, ha votato per von der Leyen. Lo dimostra il fatto che Raffaele Fitto, fedelissimo della premier e vero autore defilato della “conversione” europeista, sta per essere nominato vicepresidente esecutivo della Commissione stessa. Ne è la prova l’ostilità di socialisti, liberali e verdi all’operazione Fitto, che essi politicamente non si spiegano: infatti non s’è mai visto un presidente (la von der Leyen) che accetta un vice che non l’ha sostenuta. A meno che non ci sia un accordo politico.
Dunque da premier, la leader che arringava l’estrema destra spagnola di Vox si è di fatto allineata a coloro che diceva di voler combattere. Ora però uno dei ventriloqui di Trump scopre il gioco e pone il governo italiano davanti a un bivio: o con noi o contro di noi. A Washington sanno bene che, sotto sotto, Meloni e Tajani tifavano per Kamala Harris, non per una particolare simpatia, ma perché avrebbe garantito il perfetto allineamento dell’asse di potere esistente tra Usa e Ue. L’unico a non essersi mai mosso nel nostro esecutivo, ritrovandosi nuovamente in posizione “trumpiana” a 4 anni di distanza, è Salvini. Tuttavia Bannon, astuto com’è, si mostra pragmatico, non chiede atti di contrizione perché si dice certo che la leadership di Trump riuscirà a “convertire” la Meloni.
Ma se il governo si riposizionerà nei confronti degli Stati Uniti, l’operazione sarà più difficile sul fronte europeo. Se Fitto sarà eletto commissario Ue, nonostante il “non è dei nostri” proclamato dai socialisti, la presidente del Consiglio farà fatica a ondeggiare ancora tra von der Leyen da un lato e Le Pen, Orbán e Farage dall’altro. Insomma, gli Usa tirano la Meloni per la giacca del tailleur e lei rischia di perdere l’equilibrio. Per sua fortuna, sul fronte interno non si registrano scossoni come ha confermato il voto in Liguria. Ma domenica e lunedì si aprono le urne in Emilia-Romagna e Umbria e lo scenario potrebbe subire qualche mutamento.
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